Horror & Thriller

Exit 8: la recensione del film in loop di Genki Kawamura

Il regista giapponese trasforma un’idea potente in un esercizio ripetitivo: atmosfera iniziale riuscita, ma allegoria facile e finale troppo spiegato

Exit 8 è l’ennesima prova che adattare un videogioco non significa incorniciare un gameplay e premiarlo con la patina del “cinema d’autore”. L’idea di partenza è pulita: un uomo qualunque (Kazunari Ninomiya), uscito da un vagone della metropolitana di Tokyo, si ritrova intrappolato in un corridoio identico a sé stesso che si ripete all’infinito. Un cartello detta la regola: se noti un’anomalia, torna indietro; se è tutto uguale, prosegui. Otto uscite da superare, come livelli.

La prima lunga soggettiva è davvero efficace: lo spazio si svuota, il brusio si spegne, resta il limbo piastrellato, qualche manifesto che sembra guardarti, il “Walking Man” che attraversa il tunnel come un automa. In quei minuti il film riesce persino a farci “giocare” con lo sguardo, a scandagliare cornici, armadietti, cartelli, microvariazioni. Poi, però, comincia a ripetersi.

Il problema non è la ripetizione in sé – è il cuore concettuale dell’opera – ma il modo in cui viene amministrata: rigida, prevedibile, sempre uguale nella scansione e negli scarti. La tensione si consuma a furia di piccole differenze messe in vetrina come easter egg, senza un crescendo reale né un respiro che alterni paura e attesa. Quando arrivano le incursioni più apertamente orrorifiche (visioni, creature, deformazioni da corridoio stregato) non sono liberatorie: suonano come una concessione, non come una necessità interna al dispositivo. E la regia, così rigorosa all’inizio, si piega a una calligrafia patinata che smussa l’angoscia e lucida l’ambientazione fino a renderla innocua.

La scelta di allargare il punto di vista su altri “giocatori” del loop è un’altra promessa sprecata. L’idea che più persone condividano lo stesso labirinto potrebbe aprire a un discorso sul lavoro alienante, sul sonno di coscienza collettivo, sulla colpa che si ripete. Invece resta un accenno: l’ingresso di nuove prospettive confonde la posta in gioco del protagonista, diluisce il filo drammatico e sposta l’attenzione dalla regola alla spiegazione, senza però offrire un vero “perché”. È come se il film avesse paura del proprio minimalismo e provasse a gonfiarlo con sottotrame che non trovano uno sbocco.

L’innesto melodrammatico – la telefonata con l’ex, la gravidanza, il bivio esistenziale – prova a dare peso emotivo al percorso. Ma l’allegoria è troppo comoda: indecisione uguale corridoio infinito, maturità uguale uscita verso la luce. Il finale, chiuso con il lucchetto del “rompicapo risolto”, conferma questa tendenza a spiegare tutto e a riportare l’esperienza nel recinto del significato edificante. A tratti affiora persino una vena moraleggiante che rende il tema della paternità meno universale e più ideologico; invece di scavare nelle ambivalenze, il film sembra guidare lo spettatore verso l’unica lettura “giusta”, cospargendo il cammino di simboli a prova di equivoco.

Sul piano sensoriale c’è mestiere, ma anche qui prevale la ripetizione: il suono si fa insistente fino allo stordimento, i pianti lontani si scompongono e ricompongono come un loop audio, le luci abbaglianti delle piastrelle cancellano le ombre. È un’ansia di superficie, accumulativa, che non sedimenta. Quando arriva qualche immagine più coraggiosa, resta l’impressione di un colpo ad effetto incollato sopra la struttura, non germinato da essa.

Paradossalmente, il momento più interessante è quello che il film tratta come digressione: il “Walking Man”, figura di routine pura, corpo che cammina senza scopo da una vita e forse oltre. Lì si intravede un cinema che potrebbe farsi davvero politico, trasformando il corridoio in macchina di sfruttamento e il gioco delle anomalie in rivelazione del sistema. Ma la deviazione dura troppo poco: appena suggellata, si rientra nel tracciato, si rimettono i paletti, si riparte con l’ennesima iterazione.

Non mancano intuizioni felici: la prima soggettiva, alcuni “trova la differenza” che ribaltano l’inquadratura con eleganza, il modo in cui i manifesti pubblicitari diventano minaccia passiva, il sorriso agghiacciante del passante ricorrente. Sono schegge che dimostrano come, in teoria, Exit 8 saprebbe essere un vero film-sensore, capace di trasformare lo spettatore in co-autore della paura. Ma l’impianto cerca continuamente di addomesticarle dentro un arco psicologico pulito, con un sottofinale di redenzione che toglie aria al mistero.

Si esce con la sensazione di aver percorso un esercizio di stile ben lucidato, più “concept” che cinema, dove la fedeltà allo spirito del gioco – osserva, deduci, ripeti – viene scambiata per drammaturgia. L’idea c’era e bastava: bastava accettare il rischio del non detto, rallentare il desiderio di spiegare, lasciare che il corridoio restasse davvero un corridoio, non un corridoio che insegna una lezione. Così com’è, Exit 8 intrattiene a scatti, incuriosisce all’inizio, poi sfianca. È un puzzle ben disegnato che ti mostra la soluzione prima che tu abbia voglia di risolverlo.

Il trailer internazionale di Exit 8:

Share
Published by
Alessandro Gamma