Horror & Thriller

Eye for an Eye: la recensione dell’horror con Mr. Sandman di Colin Tilley

Il regista debutta con un'opera paranormale piena di spunti e suggestioni, ma che non riesce a portare a compimento le sue affascinanti premesse

Nel variegato panorama dell’horror paranormale, ormai segnato da una certa ripetitività di temi, situazioni e presenze malevole, la produzione di film appartenenti al sottogenere non accenna a rallentare, sempre alla ricerca di nuovi incubi da esplorare – spesso, però, partendo da soggetti non originali.

Eppure, trasporre libri e fumetti sul grande schermo resta tutt’altro che semplice. Lo dimostra Eye for an Eye, esordio alla regia di Colin Tilley (presentato in anteprima al Festival di Sitges 2025), ispirato al graphic novel Mr. Sandman di Elisa Victoria, che firma anche la sceneggiatura dell’adattamento insieme a Michael Tully. Il film, tuttavia, si smarrisce in un insieme stroboscopico di suggestioni visive e spunti narrativi, incapace di dar loro una reale profondità o di rivestire i numerosi cliché con un tratto davvero originale.

Le premesse, però, restano cupe e affascinanti. Dopo la morte dei genitori in un tragico incidente d’auto, Anna si trasferisce in una cittadina di provincia in Florida dalla nonna, May (S. Epatha Merkerson), con cui non ha mai avuto alcun legame. Cieca da giovane in circostanze misteriose, la matriarca vive sola in una grande villa immersa tra alberi secolari. Poco dopo l’arrivo di Anna, una nuova ondata di violenza si abbatte sulla famiglia: la ragazza si ritrova braccata dalla stessa oscura presenza che, decenni prima, aveva colpito la sua anziana parente.

La componente soprannaturale di Eye for an Eye, incarnata dal demone dei sogni – il Mr. Sandman del fumetto originale – assume i tratti vernacolari delle leggende urbane, radicate in una piccola comunità liminale dove le credenze popolari conservano ancora un potere oscuro. L’epicentro horror si intreccia con dinamiche personali e sociali: il bullismo verso un ragazzo indifeso, il senso di colpa, il desiderio di redenzione dai propri peccati – anche solo quelli commessi per omissione o passività.

Colin Tilley, con un passato principalmente da videomaker nel campo dei videoclip musicali, riesce a catturare con efficacia il lato crepuscolare e inquietante dei boschi, delle torbide zone palustri e della desolata provincia americana. La fotografia, cupa e virata su toni freddi e spenti, trasmette un senso di vuoto che sembra irradiarsi dal paesaggio fino ai personaggi in scena – e infine alla creatura stessa. È proprio nel cuore pulsante delle sterminate distese di vegetazione secolare che affonda le radici la maledizione: da essa nasce un vendicativo “uomo dei sogni”, che trae la propria origine più dalla malevolenza del luogo che dal mito. La sopraffazione diventa un ciclo perpetuo, in cui i più deboli non solo subiscono, ma talvolta riescono a vendicarsi – anche indirettamente.

Tuttavia, né questo aspetto né la rappresentazione del soprannaturale riescono a emergere del tutto. Se in alcuni momenti le atmosfere riescono a fondersi con la realtà o a insinuarsi nel sogno, nei luoghi in cui l’entità agisce, in altri si ricorre a facili jumpscare o, peggio, a una materializzazione dell’incubo e del suo portatore dal tono grottesco, che finisce per spegnere ogni autentico brivido.

La parabola narrativa e la psicologia di Anna si fondano su un duplice percorso, familiare e collettivo, entrambi segnati da ferite mai del tutto risolte: da un lato l’eredità di un trauma domestico rimosso, dall’altro la memoria di una comunità intrisa di colpa e superstizione. Whitney Peak conferisce al suo personaggio la giusta consistenza, restituendo una ragazza problematica, sola e spaventata, che scivola lentamente nella tenebra, mentre sogni sempre più sinistri e allucinazioni a occhi aperti prendono il sopravvento.

Meno riusciti, invece, alcuni personaggi di contorno – a partire da Shawn, il bulletto di provincia interpretato da un taciturno Laken Giles, e dalla sua inseparabile compagna di scorribande Julie (Finn Bennett), la cui improvvisa presa di coscienza arriva troppo tardi per salvarla dalla maledizione che le cattive compagnie le hanno attirato addosso.

Il secondo filone narrativo, più promettente che davvero solido, ruota intorno alla sinistra nonna May, interpretata da S. Epatha Merkerson. capace di creare la giusta tensione, è misteriosa, imperiosa e a tratti aggressiva, mantenendo lo spettatore sospeso per buona parte di Eye for an Eye sulla sua reale natura e sul ruolo che gioca all’interno delle dinamiche del racconto.

Tuttavia, la risoluzione finale fa sprofondare il personaggio nel nonsense, facendogli perdere ogni alone di ambiguità e fascino sinistro. La sorella Patti (Golda Rosheuvel), invece, resta confinata in uno spazio troppo marginale e poco approfondito per avere un peso reale, limitandosi a fungere da innesco di alcune tensioni chiave nello sviluppo della trama e nella sua conclusione.

Sebbene Eye for an Eye tocchi a tratti le giuste corde, non riesce a portare a compimento le molte suggestioni da cui attinge. L’opaco e isolato immaginario di provincia, già presente nel graphic novel, non viene sfruttato appieno, soffocato da una narrazione spesso confusa e da uno sviluppo tematico troppo superficiale.

Gli spunti di riflessione, che avrebbero meritato maggiore profondità, si perdono tra derive simboliche non sempre coerenti e una tensione che procede a scatti. Anche sul piano puramente horror, il film manca di misura: mostra troppo, affidandosi a effetti speciali in cgi posticci che finiscono per smorzare l’inquietudine invece di amplificarla. Rimane l’ambizione di un esordio visivamente curato e a tratti evocativo, ma Eye for an Eye non riesce a trasformare le sue buone intenzioni in un incubo davvero memorabile.

Il trailer internazionale di Eye for an Eye:

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Published by
Sabrina Crivelli