Azione & Avventura

Brad Pitt corre in F1: recensione del film sportivo diretto da Joseph Kosinski

Uno spettacolone tecnico ma narrativamente prevedibile, che fatica ad andare oltre i cliché del genere

F1: Il Film di Joseph Kosinski è un’opera tanto ossessionata dall’aderenza alla realtà del mondo delle corse quanto prigioniera di una struttura narrativa scolpita nel cliché, un film che, pur partendo dal potenziale di un’esperienza immersiva senza precedenti, si arena nell’inseguimento del pathos.

Scritto da Ehren Kruger e interpretato da Brad Pitt nei panni del veterano Sonny Hayes, F1 ripercorre l’archetipo sportivo del “ritorno del campione caduto”, seguendo il binario ben tracciato che va da Rocky a Top Gun: Maverick, eppure lo fa con una consapevolezza tecnica così acuta da sembrare quasi un documentario camuffato da blockbuster.

La regia di Kosinski, coadiuvata dalla fotografia di Claudio Miranda e dal montaggio di Stephen Mirrione, trasforma ogni curva in una danza meccanica, ogni sorpasso in una coreografia di pura tensione cinematografica, grazie a camere on-board ad alta definizione, montate durante veri eventi di Formula 1, e a soluzioni visive come le rotazioni a 180° che inquadrano il pilota dalla prospettiva dell’abitacolo in piena accelerazione.

Questa estetica fluida, muscolare, spesso straordinaria, viene tuttavia imbrigliata da una scrittura che non osa, non devia, non sorprende. Sonny Hayes è un personaggio affascinante solo in potenza: un ex talento mai sbocciato, segnato da un incidente nel 1993 e da una vita errante tra taxi a New York e scommesse perse, vive oggi come un Ronin su quattro ruote. Ma il film non approfondisce mai la sua psiche: l’eroismo di Sonny resta sempre evocato, mai realmente analizzato.

Brad Pitt, con il suo carisma da star consunta, tiene la scena con eleganza e malinconia, ma il personaggio non cresce, si limita a reiterare un set di pose ribelli e battute spigolose che lo rendono più un’icona che un individuo. Damson Idris, nel ruolo del giovane Joshua Pearce, porta invece una credibilità moderna, arrogante e digitale, incarnando la nuova generazione della F1 tra simulazioni ad alta definizione e social media, ma la sua traiettoria narrativa si intuisce fin dai primi minuti.

Il loro rapporto conflittuale, fatto di diffidenza, rispetto forzato e successiva intesa, è gestito con professionalità ma privo di slanci emotivi reali. Ancora più prevedibile è il sottotesto romantico con Kate McKenna, direttrice tecnica interpretata da Kerry Condon, la prima donna in quel ruolo nella F1. La Condon è magnetica, adulta, sobria, e riesce a restituire dignità a un personaggio che, nello script, era scritto come love interest funzionale e nulla più.

I momenti migliori di F1 si concentrano sulla dimensione collettiva dello sport, con il box, il team e il cruscotto decisionale che ospita tensioni strategiche tra il pragmatismo di Kaspar Molinski (Kim Bodnia) e l’ambizione tecnica di Kate. Questi frammenti restituiscono l’idea che la Formula 1 sia un’arte ingegneristica, fatta di millisecondi, materiali, software e nervi.

Il film riesce anche ad affrontare la dimensione corporativa del circo F1, con l’intervento di Tobias Menzies come freddo investitore pronto a disintegrare la scuderia APXGP se non otterrà risultati. Ma a ogni tentativo di realismo si contrappone la pressione narrativa del grande cinema commerciale: le frasi preconfezionate (“a volte per vincere bisogna perdere”), i dialoghi che spiegano ciò che le immagini dovrebbero suggerire, le sottotrame inutilmente caricaturali come quella con Sarah Niles, madre iperprotettiva e ironica del giovane Joshua, chiaramente pensata per ammiccare al pubblico di Ted Lasso.

Più il film si sforza di restituire l’autenticità tecnica della Formula 1 — con simulatori digitali, ingegneria aerodinamica, montaggio frenetico e location reali (Ferrari e Mercedes hanno davvero concesso i propri box) — più la sceneggiatura appare artificiosa. Il commento sportivo in stile televisivo, onnipresente durante le corse, diventa il sintomo di una contraddizione insanabile: la volontà di spiegare ogni regola al pubblico generalista senza sacrificare l’immedesimazione dei fan più esperti.

Questo approccio penalizza la suspense: si assiste alla gara con la sensazione di guardare un replay, e non di viverla in tempo reale. Hans Zimmer, con la sua colonna sonora esplosiva, prova a mascherare la prevedibilità drammaturgica con un senso costante di urgenza e solennità, ma nemmeno il suo intervento può correggere l’assenza di un vero sviluppo emotivo.

A differenza di Top Gun: Maverick, dove i codici del passato venivano reinterpretati in chiave emozionale, F1 si limita a replicarli senza tensione interiore. Kosinski sembra più interessato alla sensazione cinetica che al significato del viaggio, e anche se le sue corse sono tecnicamente ineccepibili, lo spettatore resta ai margini, privo di partecipazione emotiva.

L’esperienza diventa così più simile a un visore VR che a un racconto di redenzione. Apple TV+ ha promosso il film con trailer tattili, vibrazioni calibrate e sinergie promozionali perfette per l’era digitale, ma tutta questa sovrastruttura mediale non riesce a sostituire la forza di un cinema che, pur nella sua spettacolarità, dovrebbe ancora toccare qualcosa di umano.

Sonny Hayes corre per sfuggire al passato, per riconnettersi con sé stesso, ma il film non gli permette mai di raccontare davvero chi è, né di sbagliare abbastanza da diventare credibile. Così F1 corre veloce, ma su un circuito che abbiamo già visto troppe volte, con curve spettacolari e sorpassi coreografici che non bastano a farci dimenticare dove finirà la corsa.

È un film costruito con maestria, recitato con solidità, girato con eleganza, ma scritto con il freno a mano tirato. Un’auto da sogno che non osa davvero premere sull’acceleratore della verità.

Di seguito trovate il full trailer di F1, nei nostri cinema dal 25 giugno:

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Published by
William Maga