Horror & Thriller

Founders Day: la recensione delo slasher di Erik Bloomquist

Un prodotto che promette sangue e satira ma non affonda: confezione curata, politica inoffensiva e pochi brividi memorabili

Founders Day ambisce a essere lo slasher politico del momento, ma finisce per somigliare a un esercizio di stile che guarda troppo allo specchietto retrovisore. L’idea è seducente: una cittadina del New England in ebollizione per le elezioni del sindaco, un assassino mascherato da padre fondatore armato di martello e bilancia, famiglie rivali e adolescenti travolti da omicidi che diventano munizioni elettorali. Sulla carta, un campo minato perfetto per coniugare sangue e satira. Sullo schermo, però, la lama affonda raramente.

La componente politica è il punto debole più evidente. La sfida tra l’uscente Blair Gladwell e lo sfidante Harold Faulkner è tutta slogan, cartelloni e strepiti, ma priva di contenuti: non esistono temi, non esistono idee, esiste solo il rumore. Questa neutralità “per non scontentare nessuno” azzera il morso della satira: la cattiveria resta promessa, mai mantenuta. Quando il film prova a equiparare vizi e colpe dei due fronti, lo fa con l’ovvietà di un tema scolastico, senza la ferocia necessaria a trasformare la cronaca di paese in allegoria.

Sul versante horror, Erik e Carson Bloomquist conoscono il manuale del genere ma faticano a rianimarlo. Ritroviamo l’elenco completo dei codici anni Ottanta: la final girl (Allison, interpretata da Naomi Grace) definita più da segni esterni che da una vera psicologia; l’ex fidanzato tormentato (Adam, Devin Druid), la nuova fiamma arrogante, gli adulti ciechi o opportunisti, il professore bonario, la coppia sfrontata “destinata al tavolo dell’obitorio”. La maschera del boia-coloniale è un’idea d’immagine azzeccata, ma resta un travestimento: dietro non c’è un vero simbolo, solo un pretesto per i delitti.

Anche gli omicidi raramente graffiano. La regia accompagna con discreta perizia alcune messe in scena (la sala del cinema, il ponte dei lucchetti), ma il colpo finale spesso arriva prevedibile o attenuato. L’eccezione è un incidente che coinvolge un personaggio chiave: improvviso, disturbante, con un peso emotivo reale. Peccato che il racconto lo consumi in fretta, invece di farlo detonare come trauma collettivo capace di spaccare la comunità e ridefinire le alleanze.

Il film esibisce un tono oscillante che non trova mai una temperatura stabile: vorrebbe vibrare tra ironia nera e tensione, tra farsa civica e crudeltà, ma la miscela resta separata. La recitazione degli adulti (Amy Hargreaves, Jayce Bartok, Catherine Curtin) è spesso spinta verso la caricatura, senza dialoghi all’altezza; i giovani reggono meglio perché giocano “dritti”, ma il copione concede loro pochi momenti in cui il dolore non sia solo funzione.

Arrivare al colpevole dovrebbe valere il prezzo del biglietto: qui i depistaggi sono più meccanici che ingegnosi e il colpo di scena conclusivo sembra posticcio, fatto per sorprendere a tutti i costi. L’epilogo, poi, scivola in una chiosa che svuota la posta in gioco: invece di lasciare ferite aperte, le ricopre con un cerotto di cinismo a buon mercato. In un’opera che pretende di ragionare sul rapporto tra consenso, violenza e spettacolo, è un’occasione mancata.

Eppure, qualcosa funziona. La confezione è curata: location ben scelte, fotografia colorata che sa sporcarsi quando serve, ritmo complessivamente scorrevole. L’immagine del giustiziere in parrucca e marsina è potente, il set della festa cittadina ha energia, e quando il sangue tocca le famiglie Gladwell e Faulkner il film accenna finalmente a un lutto che pesa davvero. In quei lampi sembra capire che il vero terrore non è il martello, ma il modo in cui una comunità decide di usarlo come spettacolo o come scudo.

Perché Founders Day risulti davvero necessario, servivano tre mosse: prendere posizione invece di galleggiare nella falsa equidistanza; scegliere un punto di vista netto (la figlia della sindaca Lilly – Emilia McCarthy -, il figlio dell’avversario, la final girl) e seguirlo fino in fondo; rinunciare al museo delle citazioni per lasciare che una sola sequenza, una sola idea, diventasse indelebile. Quando un recente slasher stagionale ha osato l’impudico e ha vinto, non lo ha fatto perché “più cattivo”, ma perché coerente con la propria cattiveria.

Insomma, Founders Day è uno slasher civico elegante in superficie ma timido nella sostanza. Promette sangue e politica, offre omicidi corretti e politica inoffensiva. Chi cerca il brivido troverà qualche immagine suggestiva e un incidente che resta in testa; chi cerca la satira morderà aria. Con una visione meno accomodante e un conflitto meno da manuale, avrebbe potuto essere il manifesto di un nuovo filone; così è un promemoria: se vuoi far rivivere i fantasmi degli anni Ottanta, devi dare loro un motivo per tornare, non solo un costume da indossare.

Il trailer di Founders Day:

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Published by
Gioia Majuna
Tags: recensione