Un horror bellico affascinante nelle creature, ma fragile nella narrazione
Uscito nel 2013, Frankenstein’s Army è uno di quei titoli che, sulla carta, sembrano destinati a entrare nel pantheon del culto horror: un’ambientazione bellica carica di suggestioni, l’eredità del mito di Frankenstein riletta in chiave meccanico-organica, un’estetica che sposa ruggine, lamiere e carne come in un incubo steampunk sovietico-tedesco.
Eppure il film di Richard Raaphorst, invece di esplodere in tutta la sua potenzialità visionaria, rimane sospeso tra intuizioni brillanti e scelte narrative che ne frenano l’impatto, offrendo un’esperienza discontinua, spesso più frustrante che terrorizzante. Analizzare a fondo l’opera significa riconoscere tanto il fascino artigianale dei suoi mostri quanto le fragilità strutturali di un racconto che fatica a trovare una direzione.
Il dispositivo del falso documentario, affidato alla cinepresa di Dimitri, giovane soldato incaricato di filmare una missione di ricognizione, costituisce l’architrave formale dell’opera. Sulla teoria, l’idea funziona: la prospettiva soggettiva offre immersione, alimenta la tensione, genera disorientamento. Ma la promessa rimane largamente inesaudita. La scelta di aderire al formato senza tener conto dei limiti tecnici dell’epoca incrina la sospensione dell’incredulità e il continuo tremolio delle immagini, più che un mezzo espressivo, diventa un ostacolo alla fruizione, che sacrifica momenti potenzialmente memorabili.
La macchina da presa sopravvive a situazioni impossibili, quando dovrebbe essere la prima vittima designata. È come se il film dimenticasse la propria premessa ogni volta che la spettacolarità degli effetti richiede spazio, rivelando una frattura tra forma e sostanza.
Eppure, proprio gli effetti speciali rappresentano il cuore pulsante dell’opera. Le creature ideate e assemblate come innesti postumi di umanità e acciaio hanno una forza iconografica indubbia. Il soldato con la trivella facciale, l’essere che sostituisce la testa con una sorta di elica d’aereo, i mostri dalle membra sproporzionate e dagli arti mutati in strumenti di morte: ogni apparizione è un piccolo quadro di follia industriale, un trionfo di artigianalità che trasmette la fatica dei materiali, la sporcizia della guerra, la crudeltà della scienza deviata. Eppure la densità estetica non basta.
I mostri, pur magnetici, rimangono gusci vuoti, privi di intenzione riconoscibile, ingranaggi scenografici che non riescono a incarnare un vero orrore narrativo. Mancano di personalità, non instaurano un rapporto emotivo o simbolico con i personaggi, non suggeriscono un immaginario che vada oltre l’impatto visivo. È un paradosso: ciò che dovrebbe rendere il film unico finisce per funzionare come una parata di invenzioni isolate.
Anche la caratterizzazione dei soldati è ridotta all’osso: più tipi umani che personaggi, con conflitti interni appena suggeriti e dialoghi spesso esplicativi, come se lo spettatore dovesse essere guidato passo dopo passo. L’assenza di un vero approfondimento emotivo indebolisce l’impatto delle morti, che dovrebbero funzionare da detonatori drammatici e invece svaniscono nella confusione dell’immagine tremolante.
L’ingresso in scena del dottor Frankenstein, interpretato con gusto teatrale, rompe finalmente la monotonia, rivelando l’unico vero personaggio ad avere una voce. Il suo delirio scientifico, che pretende di unire ideologie nemiche in un unico corpo per porre fine alla guerra, introduce un barlume di satira, un potenziale commento sulla disumanizzazione dei conflitti e sulla follia dei totalitarismi. Ma questa scintilla rimane isolata, come un’intuizione non coltivata.
Il film non costruisce intorno a lui un discorso coerente, e la sua apparizione, troppo tardiva, non riesce a riequilibrare un impianto narrativo ormai logoro. Si percepisce ciò che sarebbe potuto essere un capitolo disturbante e grottesco del cinema fantastico europeo, ma ciò che arriva sullo schermo è solo una porzione di quell’immaginario, smarrito tra eccessi visivi e carenze drammaturgiche.
Il film sembra oscillare tra due anime che non riescono mai a convivere. Da un lato la volontà di un realismo sporco, di un’ambientazione bellica che restituisce fame, stanchezza, diffidenza tra compagni d’armi. Dall’altro il gusto per il mostruoso, che invece reclama ironia, esagerazione, libertà pulp. Raaphorst sceglie di attenersi alla seriosità del contesto storico, senza concedersi quella leggerezza che avrebbe potuto trasformare l’eccesso in virtù, smorzando le inevitabili incongruenze. Una vena grottesca, appena accennata, avrebbe arricchito il film, permettendogli di abbracciare pienamente la propria identità di spettacolo macabro e non di ricostruzione pseudo-documentaria.
Frankenstein’s Army rimane così un’opera divisa, seducente nella superficie e debole nella struttura. Il suo valore risiede nella potenza visiva delle creature, nella volontà di creare un mondo che mescola guerra e incubo biologico, memoria letteraria e immaginario da laboratorio clandestino. Ma il potenziale non si trasforma mai in un’esperienza compatta. Lo spettatore rimane affascinato dalle invenzioni, ma non coinvolto dal destino dei protagonisti; incuriosito dal laboratorio di Frankenstein, ma privo di un percorso emotivo che renda quel mondo più di un catalogo di mostri.
In definitiva, il film vive del suo artigianato e muore della sua narrazione. È un viaggio che merita uno sguardo per la fantasia delle sue creazioni, ma che non riesce a raggiungere la risonanza emotiva o il terrore che promette. Rimane un reperto curioso, un’idea brillante assemblata con perizia tecnica ma senza un cuore narrativo capace di infonderle vita. Un esperimento incompiuto, come molti dei suoi mostri: impressionante da vedere, ma incapace di lasciare un segno duraturo.
Il trailer: