Un'esperienza insolita, ma meno banale di quello che potrebbe sembrare
Good Boy di Ben Leonberg è uno di quei film che sembrano un’idea arguta sulla carta e invece, sullo schermo, diventano un’esperienza emotiva e sensoriale fuori dal comune. L’assunto è essenziale: un uomo malato, Todd (Shane Jensen), esce dall’ospedale e si rifugia con il suo cane, Indy, nella vecchia casa di campagna del nonno. La casa scricchiola, il bosco intorno sembra trattenere il respiro, il passato affiora in nastri consumati e in presenze che forse sono ricordi, forse fantasmi.
La particolarità è che tutto . paure, rumori, odori, ombre – lo viviamo attraverso lo sguardo e l’udito del cane. Le inquadrature si tengono basse, i volti umani restano spesso fuori campo, il mondo è fatto di stivali che passano, di corridoi lunghi come gallerie, di porte che spingono aria fredda. Ne nasce un racconto di casa infestata che rinuncia alla chiacchiera e si affida al cinema puro: suoni, durata dello sguardo, montaggio che associa un muso in allerta a un vuoto nel buio e ci fa immaginare il resto.
Dal punto di vista formale, l’operazione è rigorosa. La macchina da presa si colloca alla statura di Indy, e con lui esplora. Il cane inclina la testa, tende le orecchie, annusa; noi completiamo il significato. È un uso raffinato della grammatica cinematografica: il dettaglio sonoro che si isola, l’ellissi che spezza il tempo, il taglio che suggerisce un’intenzione dove forse c’è solo istinto. È anche qui che il film sorprende rispetto a tanti esperimenti ad alto concetto: il protagonista a quattro zampe non è un espediente simpatico, è un interprete.
Le reazioni sono minute e leggibili, la paura passa dagli occhi lucidi, la devozione vibra nei movimenti rapidi e poi trattenuti. La durata contenuta – poco più di un’ora – evita la ripetizione e conserva l’ipnosi di un incubo che sembra sempre sul punto di sciogliersi e invece s’infittisce.
Sul piano tematico, Good Boy interseca tre linee con precisione. La prima è l’angoscia della malattia: la tosse di Todd, i colpi di fiato, la stanchezza che altera l’umore e la percezione. Non c’è mai un discorso esplicito, ma il corpo del padrone parla abbastanza da generare in Indy una vigilanza continua. La seconda è la memoria familiare: la casa del nonno è un archivio di segni, un luogo che conserva colpe e fedeltà, un perimetro in cui ogni oggetto potrebbe essere indizio o trappola. La terza è il legame assoluto tra cane e umano: l’animale non possiede la nostra logica, ma conosce il pericolo e, soprattutto, la fedeltà. Per questo il film fa più male quando la minaccia non è il fantasma nel corridoio ma l’idea, intollerabile per un cane, di perdere il proprio compagno.
Il confronto critico con altri racconti di case infestate evidenzia ciò che qui cambia la prospettiva. Nella tradizione, il protagonista umano interpreta, razionalizza, indaga. Qui l’eroe non può capire la genealogia della maledizione, non può decodificare le parole in un nastro o il sottotesto di un litigio. Può solo sentire.
Un passaggio decisivo è l’emersione del “fantasma cane”: un’idea quasi infantile, e proprio per questo potentissima. Se un animale vede ciò che noi non vediamo, cosa accade quando l’oltre è un suo simile? L’immagine ferisce perché tocca il cuore del film: la compagnia. Per Indy il mondo coincide con Todd; ogni altra presenza – amichevole o minacciosa – è filtro per proteggere o recuperare lui. Anche la figura del vicino mimetizzato nel bosco, o i resti del passato del nonno, funzionano come raddoppi: scompigliano la distinzione tra umano e bestia, tra predatore e preda, tra superstizione e verità.
Il lavoro sul suono merita un cenno a parte. Il respiro del vento, la porta che vibra, i passi sul tavolato, il fruscio del bosco: tutto è calibrato per l’udito sensibile di Indy e, in controcampo, per la nostra immaginazione. Ogni volta che la macchina da presa indugia su un angolo vuoto dopo uno sguardo del cane, noi siamo costretti a “riempire” quel vuoto. È qui che il film ottiene i suoi brividi migliori: non nello spavento facile, ma nel tempo sospeso che precede il possibile pericolo. Quando poi l’azione accelera nel tratto finale, la messa in scena conserva coerenza e trova un’emozione netta: la corsa per salvare chi ami, anche senza comprendere da cosa.
Dal punto di vista degli attori umani, la scelta di nascondere i volti è coerente con l’adozione del punto di vista animale: i corpi sono funzioni, voci, segnali. Questo può togliere spessore psicologico a qualcuno dei personaggi, ma aggiunge compattezza al disegno d’insieme. La casa diventa protagonista, il cane ne è il medium, gli adulti sono comparse alte che parlano da lontano. È un rovesciamento che, oltre a rinfrescare un genere spesso convenzionale, produce una verità semplice: nella vita quotidiana, chi convive con un animale sa che la comunicazione passa per gesti, suoni, posture. Il film assolutizza quella verità e la trasforma in linguaggio.
Nel bilancio complessivo, Good Boy è molto più di una trovata. È un film breve e compatto che usa con intelligenza i limiti autoimposti per generare atmosfera, tensione, tenerezza. Qualche passaggio ripetitivo esiste, ma è parte di una scelta estetica coerente. La paura è terrestre, aderente ai pavimenti e alle scale; la commozione è diretta, senza orpelli. E al centro, come un faro, c’è la prova di Indy: occhi, orecchie, passo, immobilità. Una recitazione che nasce da pazienza, addestramento e, soprattutto, da un’idea precisa di cinema: meno spiegare, più sentire.
In attesa di capire quando lo vedremo in Italia, di seguito trovate il trailer internazionale di Good Boy: