Categories: Horror & Thriller

Recensione story: Halloween II – Il Signore della Morte di Rick Rosenthal (1981)

Il sequel riprende esattamente dove finiva il capolavoro del 1978, rivelandosi un filmo divisivo ma decisivo per il mito di Michael Myers

L’operazione più intelligente di Halloween II – Il signore della morte è la sua scelta di tempo: il racconto ricomincia pochi minuti dopo gli eventi del 1978. Non è un semplice “il giorno dopo”, è lo stesso respiro prolungato della notte in cui “l’Uomo Nero” è tornato a Haddonfield.

Laurie Strode (Jamie Lee Curtis), ferita e sotto sedativi, viene trasportata al Memorial Hospital; il dottor Sam Loomis (Donald Pleasence), sempre più febbrile nella sua ossessione, vaga come un profeta inascoltato; Michael Myers, col volto bianco senza sguardo, continua a muoversi nell’ombra, inesorabile. Il cambio di spazio – la casa borghese sostituita dal corridoio sterilizzato – trasforma l’angoscia domestica in claustrofobia clinica: luoghi deputati alla cura si fanno teatro di espiazione, corridoi senza folla, luci al neon che non illuminano ma denunciano, porte tagliafuoco che diventano trappole.

Sul piano produttivo, il passaggio di testimone è netto ma non traumatico. John Carpenter e Debra Hill tornano alla scrittura, Rick Rosenthal dirige cercando di preservare il lessico filmico inaugurato nel ‘78: macchina da presa fluida, punti di vista che accarezzano l’inquadratura per tendere la trappola, una colonna sonora – firmata dallo stesso Carpenter con Alan Howarth – che non accompagna ma ipnotizza, con quel motivo di pianoforte subito riconoscibile e adesso ispessito da sintetizzatori più taglienti. La famosa zucca che si apre rivelando un teschio è già una dichiarazione d’intenti: la festa è finita, resta la materia nuda della morte.

Se Rosenthal predilige la suspense “asciutta”, Carpenter interviene in post-produzione e aggiunge punte di ferocia che, all’epoca, allineano il film al nuovo gusto dello “splatter” nascente: l’idromassaggio che ustiona e sfigura, l’ago ipodermico che profana lo sguardo, la flebo svuotata come una clessidra ematica. Scelte che hanno fatto discutere: da un lato chi vide in Halloween II il cedere al gusto del macabro fine a sé stesso; dall’altro chi riconobbe che l’incubo iniziale poteva permettersi una temperatura più alta senza smarrire la propria grammatica del terrore. In ogni caso, il sangue non cancella l’idea madre: Myers non “uccide” per sadismo, celebra una liturgia del vuoto. È maschera che procede, enigma che attraversa.

L’ospedale, quasi deserto, è la trovata spaziale decisiva. Il vuoto scenico non è semplice economia di mezzi: è dispositivo. L’assenza di testimoni accentua l’idea di un mondo che non vede, non ascolta, non crede. Laurie, immobilizzata, diventa eroina in sottrazione: respira a fatica, sussurra, striscia. Pleasence, invece, incarna il rovescio speculare del Mostro: l’uomo che ha intuito l’abisso e ne è contagiato, voce che perde la misura nel tentativo di salvare gli altri. Attorno a loro ruotano figure di passaggio – medici, infermiere, portantini – che il film non pretende di trasformare in protagonisti: sono corpi esposti, tasselli della processione sacrificale di una notte che non concede tregua.

Dal punto di vista iconografico e tematico, Il signore della morte sedimenta due elementi destinati a rimanere nel canone. Primo: il lampo di “Samhain” vergato sul quadro nero della scuola – un graffio di paganesimo che suggerisce, senza spiegare, una dimensione ciclica del male, come se l’azione del Mostro obbedisse a una scansione arcaica, a un calendario dell’ombra. Secondo: la rivelazione del legame di sangue tra Myers e Laurie, che muta l’orrore “casuale” dell’originale in maledizione genealogica. È una svolta controversa: da un lato offre una motivazione “fatale” all’accanimento del persecutore; dall’altro attenua la spaventosa arbitrarietà del male del 1978, quel “potrebbe capitare a chiunque” che era il genio crudele del primo film. Ma proprio l’ambivalenza di questo innesto – così come il suo peso nel successivo ripensamento della saga – spiega perché Halloween II non sia un semplice episodio, bensì un crocevia.

La messinscena alterna silenzi sospesi e improvvise deflagrazioni. Rosenthal sa lavorare con la macchina “stabilizzata” nei corridoi, Carpenter accentua gli scarti di brutalità: l’equilibrio, pur litigioso, funziona. L’inseguimento nel sotterraneo, la fuga di Laurie tra le auto della rimessa, il finale nella sala operatoria che mescola luce, fuoco e accecamento sono ancora oggi momenti di cinema fisico, fatti di spazi leggibili e azioni comprensibili. La musica non commenta: fende. Il respiro metallico di Myers resta il più economico e insieme efficace dei segni acustici.

Alla sua uscita, il film spaccò la critica. Alcuni ne denunciarono la deriva da “macelleria spettacolare”, altri ne riconobbero la compattezza e la tensione, giudicandolo il migliore fra i molti epigoni generati dal successo del ‘78. Al botteghino, la risposta fu di segno positivo: il pubblico volle davvero “la seconda metà della notte”. Col senno di poi, la sua eredità è doppia. Da un lato, ha chiuso coerentemente l’arco iniziato da Carpenter, offrendo uno sviluppo spaziale e musicale che regge ancora alla visione in continuità; dall’altro ha consegnato alla serie due “semi” destinati a germogliare in ogni direzione: il rito stagionale del male e la genealogia maledetta, che future riprese e riscritture avrebbero a volte abbracciato, a volte espunto.

Halloween II è dunque un seguito necessario non perché “spiega”, ma perché amplifica: trasforma la casa in ospedale, la caccia in processione, il boogeyman in archetipo. La misura del suo valore sta qui: nel riuscire a essere, insieme, estensione e variazione. Se il primo film resta la perfezione della semplicità, il secondo è la complessità del ritorno. E in quel ritorno – tra il tintinnare di strumenti chirurgici e la pulsazione di un tema musicale oramai liturgico – il mito di Michael Myers diventa, definitivamente, mito.

Il trailer internazionale:

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Published by
Marco Tedesco