2017 anno della rivoluzione: per la prima volta dopo tanto tempo, i film premiati sono i migliori e anche i preferiti dal pubblico. Una riflessione su questo cambiamento di rotta.
La premiazione di sabato sera ha avuto una durata estenuante, tanto che dopo un’ora di cerimonia la maggior parte degli spettatori non aveva ancora udito il titolo di nemmeno uno dei film a cui aveva assistito. Il madrino Alessandro Borghi, barba incolta e orrenda giacca grigio chiara su pantaloni scuri indosso, non ha avuto l’ardire di imporre un ritmo sollecito agl’interventi. Per di più mancava la traduzione simultanea, rendendo necessario il doppio del tempo per ciascuna delle dichiarazioni. Che non erano poche, dal momento che sono stati assegnati, in ordine cronologico, tre premi per il concorso della Realtà Virtuale, due per i restauri, sette per il concorso Orizzonti e otto per il concorso principale. Non stiamo a fare l’elenco dei vincitori, che è cosa già nota; ci preme casomai spendere due parole circa le scelte della giuria e, di conseguenza, il senso e il valore di un evento come la Mostra del Cinema di Venezia rispetto alle logiche cinematografiche.
A cosa si deve questa modifica nella rotta? Si potrebbe spiegare con il cambio della giuria, ma sarebbe come dire che il festival di Venezia può essere di anno in anno rivoluzionato nei criteri di scelta e, se così fosse, rischierebbe di perdere credito come manifesto delle tendenze cinematografiche mondiali, che non possono essere sovvertite ogni dodici mesi. La ragione potrebbe allora essere che, a differenza della storia d’amore di Chazelle, del Toro ne racconta una che lascia intravvedere un messaggio di accoglienza e di rispetto per il diverso e che abbina al sentimento anche un po’ di politica. Tre Manifesti a Ebbing, Missouri, che è piaciuto altrettanto all’unanimità, racconta uno spaccato di un’America in crisi, privo di un messaggio diretto e univoco su una tesi condivisa da tutti. Alla resa dei conti tuttavia, ha ritirato soltanto un premio minore. Nemmeno l’impegno però è da solo garanzia di successo, perché i film di George Clooney (Suburbicon) e Frederick Wiseman (Ex Libris) – due messaggi forti contro il presidente Donald Trump, come dichiarato dagli autori stessi – sono stati completamente ignorati.
Difficile dunque dire quale film deve realizzare chi volesse vincere a ogni costo il Leone d’Oro. Difficile anche dire quale sia in generale il senso di un Festival e che cosa ne resti al termine. Di solito si afferma che il suo scopo sia intercettare (parola orrenda) il nuovo nel cinema e offrirlo al pubblico. Ma non è detto che funzioni, dal momento che la grande novità di quest’anno, ovvero la Realtà Virtuale, ha attratto molti spettatori in meno rispetto alla capienza del teatro dove erano previste le sue proiezioni. La traccia più forte che ha lasciato poi il relativo concorso è stata l’immagine del Presidente della sua giuria, John Landis, visibilmente alticcio al momento delle premiazioni. Forse, dopo aver cercato di fornire spiegazioni altisonanti, la conclusione più azzeccata è quella più banale: la Mostra del cinema è una festa che con il suo clima allegro e vario riempie gli occhi e il cuore di coloro che vi partecipano. Questa rubrica ha umilmente cercato di raccontarvelo e di darvi l’illusione di essere qui con noi a godervelo. Ora è giunto il momento dei saluti e, nella difficoltà di trovare parole adeguate per farlo al meglio, conviene rifarsi a quelle usate da uno bravo: se non v’è dispiaciuta affatto vogliatene bene a chi l’ha scritta e a chi l’ha raccomodata. Ma se invece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.
Al prossimo anno.