Horror & Thriller

I Play Mother – Il gioco del male: la recensione del film horror di Brad Watson

Un prodotto che ambisce al dramma psicologico ma fatica a sviluppare tensione e idee

Il cinema dell’orrore ha sempre avuto un’intima relazione con le paure familiari e sociali, e I Play Mother – Il Gioco del Male si muove su questa linea con un’operazione ambiziosa, ma irrisolta. L’opera di Brad Watson tenta infatti una sintesi tra horror domestico e psicodramma intimo, spingendosi verso un territorio dove la tensione dovrebbe derivare non tanto dall’invasione del soprannaturale, quanto dal trauma, dalla fragilità della genitorialità e dal peso del lutto.

La trama si costruisce intorno a una coppia, Michelle e Cyrus, che dopo un lungo percorso ottiene l’affidamento di due bambini. L’ingresso dei piccoli, apparentemente traumatizzati dalla morte della madre biologica, innesca una progressiva crisi identitaria, relazionale e infine percettiva. È qui che il film tenta l’equilibrio più delicato: quello tra il realismo emotivo e la discesa nell’allucinazione paranoica. Eppure, se questo dualismo in sé è interessante, la messa in scena fatica a valorizzarlo. L’idea che l’orrore sia interno, che sia la mente di Cyrus il vero campo di battaglia, è potente ma trattata in modo troppo verboso, poco cinematografico, con lunghe sequenze in cui il dolore si traduce in isteria esplicita invece che in inquietudine suggerita.

L’errore più evidente, infatti, è proprio questo: I Play Mother mostra troppo e fa immaginare troppo poco. Il cinema dell’orrore – almeno quello efficace – vive di vuoti, di sospensioni, di echi. Watson invece insiste nel dettagliare ogni ansia, nel rendere ogni fragilità una dichiarazione, ogni angoscia una sequenza frontale. La regia indugia su pianti e collassi, mentre la tensione, quella vera, svapora.

L’impianto narrativo poggia su archetipi noti ma non sviluppati: i bambini misteriosi, la casa isolata, il manichino inanimato. Sono elementi che potrebbero funzionare come potenti simboli, ma qui restano più che altro funzionali, mai davvero evocativi. Quel manichino, ad esempio, viene sfruttato come icona del perturbante, ma manca di trasformarsi in vero oggetto di inquietudine – resta una figura muta, priva della stratificazione che il cinema simbolico richiede.

Il ritmo stesso del film è sbilanciato: nella sua parte centrale l’opera si arena, rallenta, perde mordente. Non tanto perché manchi l’azione – la scelta di un horror “senza urla” è in sé legittima – ma perché la drammaturgia non trova una crescita coerente. La tensione non si accumula: si frantuma in piccoli episodi, si disperde in dialoghi che spesso appesantiscono invece di aprire spazi di dubbio.

C’è tuttavia una qualità sotterranea che salva parzialmente il film: la sua volontà di spingersi oltre il genere. Nonostante le goffaggini e i difetti strutturali, I Play Mother sembra voler dire qualcosa sul peso sociale e psicologico della genitorialità. Cyrus, in particolare, rappresenta una figura interessante: un uomo in bilico tra la pressione sociale del “buon padre” e la fragilità di chi non si sente all’altezza. Peccato che il film non riesca mai ad approfondire davvero questo conflitto, preferendo rifugiarsi in suggestioni horroristiche classiche, peraltro mai portate fino in fondo.

D’altra parte, la componente visiva è coerente: la fotografia fredda, i toni spenti, gli interni scarnificati restituiscono un’ambientazione glaciale e claustrofobica. L’estetica del film lavora chiaramente sulla rarefazione, sull’assenza di colore emotivo, sull’alienazione. Ma anche qui, l’assenza di slanci registici forti limita l’impatto: non c’è mai un’immagine che resti davvero impressa, un’inquadratura che sorprenda o che suggerisca un non detto.

La performance degli attori è adeguata ma non trascinante. Susanne Wuest regge la parte con professionalità, ma il suo personaggio resta schiacciato tra prototipo e funzione narrativa. Shubham Saraf, nei panni di Cyrus, cerca un equilibrio tra confusione e disagio, ma anche lui resta confinato in una dimensione interpretativa un po’ passiva, mai realmente esplosiva. I bambini, che dovrebbero essere il fulcro emotivo e perturbante, sono diretti con poca misura, ridotti quasi a strumenti meccanici dell’inquietudine, quando avrebbero potuto essere figure ambigue, sfuggenti, complesse.

Alla fine, I Play Mother non riesce a trovare una forma precisa. È un film diviso tra ambizione e timidezza, tra suggestione e didascalia, tra horror e dramma. Funziona a tratti, accende intuizioni interessanti, ma non ha il coraggio – o la lucidità – di portarle fino in fondo. Cerca di essere un horror psicologico raffinato, ma inciampa nella verbosità e nella prevedibilità. Vorrebbe evocare il trauma e il lutto, ma si rifugia troppo spesso in cliché visivi e narrativi. Vuole riflettere sulla genitorialità, ma lo fa senza scavare davvero, senza togliere gli strati più superficiali.

Eppure, nel panorama horror contemporaneo, dove spesso si rincorrono format stereotipati e tensioni preconfezionate, anche un’opera imperfetta come questa può avere un valore. I Play Mother è il tentativo di raccontare l’orrore come condizione esistenziale, non come semplice minaccia esterna. È un film che fallisce nel compito, ma almeno prova a farsene carico.

Il trailer doppiato in italiano di I Play Mother – Il gioco del male, nei cinema dal 10 luglio:

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Published by
Gioia Majuna
Tags: recensione