Azione & Avventura

I Tre Moschettieri – D’Artagnan: la recensione dell’adattamento di Martin Bourboulon

Un film energico e sorprendentemente fedele allo spirito di Dumas, che riporta i protagonisti a casa con mestiere, fisicità e autentico piacere del racconto

Sono passati più di sessant’anni dall’ultima volta in cui la Francia ha affrontato al cinema uno dei propri capisaldi letterari, I tre moschettieri di Alexandre Dumas, nonostante i suoi personaggi abbiano continuato a vivere senza sosta sul grande schermo. Il paradosso è evidente: mentre il cinema francese reinventava linguaggi e forme, i suoi spadaccini più celebri venivano adottati, trasformati e spesso snaturati da produzioni straniere, fino a diventare figure globali scollegate dalla loro origine.

L’arrivo di I Tre Moschettieri – D’Artagnan, diretto da Martin Bourboulon, non è quindi soltanto un nuovo adattamento, ma un gesto di restituzione culturale che prova a riportare il mito a casa senza chiuderlo in una teca.

Il film nasce come prima metà di un dittico e recupera con intelligenza la natura seriale del romanzo ottocentesco. Dumas scriveva per essere atteso, per creare dipendenza narrativa, e Bourboulon accetta la sfida senza camuffarla. La storia segue l’arrivo a Parigi del giovane guascone D’Artagnan, interpretato da François Civil, deciso a entrare nei Moschettieri del re. Il suo ingresso è tutt’altro che trionfale: un susseguirsi di malintesi e scontri lo porta a fissare tre duelli consecutivi con Athos, Porthos e Aramis. È una scena chiave perché definisce subito il tono del film: l’amicizia nasce dall’attrito, dall’orgoglio e dall’impulsività, non da un ideale astratto di fratellanza.

L’irruzione delle guardie del cardinale Richelieu interrompe i duelli e salda l’alleanza. Da quel momento l’intreccio personale si fonde con quello politico. Il cardinale (Éric Ruf), orchestra un complotto per screditare la regina Anna d’Austria, sfruttando la sua relazione con il duca di Buckingham e costringendo il re a scelte belliche che consolidino il potere ecclesiastico. In parallelo, una falsa accusa di omicidio grava su Athos, mentre una figura enigmatica si muove tra le ombre: Milady de Winter, incarnata da Eva Green, vero fulcro magnetico del racconto.

Bourboulon rifiuta consapevolmente l’immagine oleografica dei moschettieri come gentiluomini profumati e impeccabili. I suoi eroi sono corpi stanchi, vestiti di stoffe sporche, immersi in una Francia fangosa e opaca. La fotografia terrosa e i costumi segnati dal fango costruiscono un’estetica coerente che avvicina il film all’action contemporaneo più che al classico cappa e spada. Le scene d’azione privilegiano piani sequenza mobili, con una macchina da presa che segue il combattimento dall’interno, esaltando l’impatto fisico più che l’eleganza coreografica. È una scelta efficace, anche se talvolta insistita: quando la sporcizia diventa uniforme, il rischio è che l’epica perda respiro visivo.

Il vero equilibrio del film sta però nella caratterizzazione del gruppo. Vincent Cassel costruisce un Athos segnato dal dolore e dalla disillusione; Pio Marmaï offre a Porthos una vitalità ironica e una sensualità dichiarata; Romain Duris tratteggia un Aramis ambiguo, diviso tra fede e desiderio. In questo mosaico, D’Artagnan è energia pura, fame di riconoscimento e slancio adolescenziale. Il film comprende che la celebre formula “uno per tutti, tutti per uno” funziona solo se prima si percepiscono le crepe, le differenze e le rivalità.

Un aspetto spesso trascurato nelle trasposizioni precedenti è il ruolo femminile, qui invece centrale. La regina interpretata da Vicky Krieps non è una semplice pedina da salvare, ma una figura politica intrappolata in un sistema di potere maschile. Milady, dal canto suo, è molto più di una villain funzionale: è seduzione, intelligenza e crudeltà, capace di oscillare tra minaccia e ironia con un controllo assoluto della scena. La sua presenza anticipa il senso profondo del dittico, che promette di spostare progressivamente il baricentro del racconto.

Nel confronto con le numerose versioni angloamericane del passato, I Tre Moschettieri – D’Artagnan si distingue per una scelta apparentemente semplice ma decisiva: far parlare i personaggi nella loro lingua, con una musicalità che restituisce ritmo e concretezza ai dialoghi. Non è un dettaglio folkloristico, ma un elemento che cambia la percezione dell’avventura, riportandola a una dimensione fisica e quotidiana. Lontano dalla parodia e dal compiacimento nostalgico, il film punta su un intrattenimento serio, consapevole che divertire è un’arte complessa.

Certo, non mancano i limiti. La palette cromatica insistita, alcune ridondanze registiche e una certa distanza emotiva in alcuni passaggi impediscono al film di raggiungere una vera grandezza. Eppure il bilancio resta positivo, perché l’operazione dimostra che un classico può essere riletto senza tradirsi, aggiornato senza essere addomesticato. Bourboulon non cerca di spiegare Dumas né di modernizzarlo a tutti i costi: si fida della forza del racconto, dei suoi intrighi, dei suoi duelli e del piacere primario della narrazione.

Il finale aperto non è un artificio commerciale, ma una scelta coerente con lo spirito del romanzo. D’Artagnan ottiene il riconoscimento che cercava, ma il mondo intorno a lui resta instabile, e Milady scompare portando con sé la promessa di una seconda parte ancora più ambigua e pericolosa. In questo senso, I Tre Moschettieri – D’Artagnan riesce dove molti adattamenti falliscono: non chiude, ma rilancia, ricordando che l’avventura è un patto di fiducia tra chi racconta e chi guarda. Un patto antico, sporco di fango e sangue, ma ancora sorprendentemente vivo.

Di seguito trovate il trailer doppiato in italiano di I Tre Moschettieri – D’Artagnan:

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Published by
Marco Tedesco