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Il diario da Venezia 78 | Episodio 0: ghe n’ho ‘na sgionfa

La Mostra del Cinema è molto cambiata negli ultimi 10 anni, e non esattamente per il meglio

L’edizione 2021 della Mostra del Cinema di Venezia prenderà il via mercoledì 1 settembre sera con Madres Paralelas di Pedro Almodovar. Cominceremo però a parlarne da domani, fornendo – come di consueto – dettagli sui film e gli avvenimenti vari che si avvicenderanno.

Nell’attesa, se non si ha di meglio da fare, si possono sfogliare le pagine che Paolo Baratta dedica al cinema nel suo libro Il giardino e l’Arsenale, di fresca uscita presso la veneziana Marsilio. Si tratta di una storia della Biennale, scritta da colui che ne è stato Presidente per sedici anni quasi consecutivi, fino al 2020, quando gli è subentrato Roberto Cicutto. In genere, libri scritti – o perlomeno firmati – da personaggi tanto istituzionali risultano di scarso interesse, costituendo perlopiù una celebrazione dei propri successi, veri o presunti che siano.

Da questo ‘vizietto’ Baratta non si astiene del tutto, lasciando intendere a più riprese quanto i risultati siano migliorati negli anni e omettendo civettuolamente che questi progressi avvenivano con lui alla guida. L’aspetto più interessante del libro risiede nello stile di scrittura dell’autore, che sceglie di mantenersi sul piano della cronaca, snocciolando resoconti e numeri per approfondire l’evoluzione di vari temi nell’ultimo decennio: il rapporto della Mostra con il cinema americano, prima tormentato e oggi idilliaco; quello con il cinema italiano, non ancora pacificato a causa dei pochi premi consegnati; l’apertura ai generi considerati minori; i legami con la politica; il rinnovamento di formule e strutture; il ruolo della stampa; le polemiche femministe degli ultimi anni e, infine, le ipotesi sul futuro dei festival cinematografici.

Stimolato dai ricordi di Paolo Baratta, non potendo approfondire i temi uno ad uno, mi provo a farne un contrappunto generale chiamando a raccolta alcuni dei miei, dal basso di una frequentazione comunque più che decennale della Mostra.

La prima immagine, emblematica, nella memoria risale al 2009: è quella della grande Claudia Cardinale, ospite nella piccola Sala Volpi per presentare la versione restaurata de La Viaccia di Mauro Bolognini e poi, a proiezione terminata, a camminare sola in mezzo a una folla di gente incurante di lei perché troppo intenta a rimirare la sfilata sul tappeto rosso dei protagonisti dell’imminente film. Quasi nulla di quegli istanti potrebbe riviversi oggi.

Innanzitutto, da un paio d’anni, dopo un interregno di restauri senza filo conduttore e senza ospiti in sala (salvo eccezioni, quando allora era la norma), le retrospettive sul passato sono state eliminate. Peccato, perché erano una delle cose più interessanti. Poi, una diva del calibro della Cardinale difficilmente ora farebbe presenza per un film minore della sua cinematografia, per di più se collocato in una rassegna collaterale. Ma soprattutto, non se ne andrebbe in giro indisturbata tra la gente in un’epoca in cui anche alla casalinga di Voghera viene ormai chiesto un selfie.

L’anno successivo accadeva un fenomeno ancor più incredibile, con Quentin Tarantino nelle vesti di Presidente di Giuria sempre avvicinabile da chiunque al bar dell’Hotel Excelsior e capace di presentarsi a sorpresa in Sala Perla alla proiezione notturna di Minnesota Clay di Sergio Corbucci per tenere a un piacevolmente stupefatto pubblico una vera e propria lezione sul cinema di questo autore da lui tanto amato.

Erano, insomma, Festival di Venezia connotati da un lato dalla semplicità dei suoi eccelsi protagonisti, dall’altro dalla grandiosità delle situazioni in cui potevano ritrovarsi gli spettatori e da un clima di costante allegria e divertimento. Una “Festa mobile”, per dirla con le parole che Ernest Hemingway usava per descrivere la Parigi d’inizio secolo e che calzavano perfettamente anche al Lido di quegli anni, dove si dormiva pochissimo (in sala, qualche volta): terminate le proiezioni del giorno, iniziava la baldoria della notte, su festose terrazze dove lo champagne scorreva in abbondanza, per poi concludersi al primo chiosco fuori del perimetro della Mostra, dove quasi all’alba la Rita ancora elargiva il bicchiere della staffa e il suo incantevole sorriso.

E poi è arrivato il nuovo corso, incentrato dal Direttore molto sul programma e poco sul contorno. Lo slogan divenne “Sempre più (Alberto) Barbera, sempre meno champagne” . Venezia scusa, stavo scherzando, Luci a San Marco non ne accenderanno più.

Questo amarcord non è soltanto per nostalgia canaglia, ma costituisce una visione da opposto angolo alle considerazioni di Baratta sul ritorno al Festival del grande cinema americano. Può darsi che si tratti soltanto di una suggestione, ma di fatto al clima così allegro e spensierato di un tempo corrispondeva, sul versante della programmazione, un Festival sempre un po’ fuori dai canoni, nel programma e soprattutto nelle premiazioni.

Tra il 2011 e il 2016 i vincitori del Leone d’Oro sono stati rispettivamente: Faust di Alexander Sokurov, Pietà di Kim Ki Duk, Sacro Gra di Gianfranco Rosi, Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza di Roy Andersson, Ti guardo di Lorenzo Vigas e La donna che se n’è andata di Lav Diaz.

Tutti titoli di nicchia, spesso provenienti da cinematografie minori, per i quali era in voga l’appellativo di “film da Festival”. Le produzioni americane erano a quel tempo reticenti all’idea di partecipare ad una rassegna che comportava ingenti costi a fronte di scarsi ritorni e magari la beffa di essere battuti nel concorso da questi film minori.

Poi, però, il direttore Alberto Barbera riuscì ad instaurarvi un nuovo dialogo, aperto con Birdman e consacrato ufficialmente nel 2017 dalla vittoria de La forma dell’acqua di Guillermo del Toro. Da allora l’America, se le si attribuisce anche la paternità morale di Roma del messicano Alfonso Cuaron, vincitore nel 2018, ha fatto filotto: Joker nel 2019 e Nomadland nel 2020.

Si aggiunga, a consolidamento del rapporto Lido-Hollywood, che in tutte queste occasioni la vittoria del Leone ha sempre costituito il preludio di quella dell’Oscar. Sulle prime, questo nuovo corso suscitò l’entusiasmo del pubblico e parve una ventata d’aria fresca su una Mostra che rischiava di ammuffire per via di pellicole troppo snob.

Ma con gli anni abbiamo cominciato a tastarne anche gli aspetti più deteriori.

In primo luogo, l’arrivo dei grandi divi al Lido ha solleticato certamente la fantasia del pubblico, ma ha comportato come rovescio della medaglia la presenza di attori più pretenziosi e dunque un maggior distacco generale tra addetti ai lavori e pubblico.

In secondo luogo, andare dietro al modello americano, oltre alle star più rinomate e alle produzioni faraoniche, ha aperto sempre più la breccia anche alla zavorra del politicamente corretto. Non è un caso che tutti i film premiati a Venezia trattassero il tema della diversità: quella fisica del mostro, quella mentale dello psicopatico da traumi infantili, quella della donna di mezza età che perde il lavoro e sposa uno stile di vita alternativo.

La Mostra ha già quindi di fatto introdotto quelle ridicole regole in favore delle minoranze – ma a sfavore della libertà artistica – messe a statuto dall’Academy con decorrenza dal 2024 per chiunque ambisca alla candidatura per la statuetta del Miglior Film.
Ogni “diversità” risulta ormai destinataria di un clamoroso affetto, all’infuori di quella del pensiero: per chi mette in dubbio i dogmi etici sono pronti gli anatemi.

Nel campo della cultura e dello spettacolo questo processo stava avvenendo in modo tanto graduale da non permettere quasi allo spettatore di accorgersene, come non ci si avvede dei capelli perduti e delle rughe e dei chili acquisiti da chi s’incontra tutti i giorni. Le recenti restrizioni da Covid hanno però sortito l’effetto di uno shock, permettendo di vedere con maggiore evidenza come anche le imposizioni per ragioni sanitarie finiscono per assumere una matrice etica.

Lo slogan di Maurizio Ferrini “non capisco ma mi adeguo” non è mai stato così in voga. In un contesto del genere, sempre più ingessato, dove si è convinta la gente a percepire il senso del dovere come un piacere, sono solo un romantico ricordo le entrate senza biglietto in sala, da una porticina posteriore, o senza invito a una festa. Ora sono subentrati controlli serrati sul rispetto della trafila “lavaggio mani-vaccino-tampone-mascherina-metri di distanza in sala-posti prenotati-scanner-green pass”.

È il Festival del Cinema di chi ama le regole, non più di chi ama la libertà. I film saranno anche diventati più prestigiosi. Però una volta ci si divertiva di più.

Di seguito il teaser trailer di Madres Paralelas:

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Published by
Giovanni Mottola