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Il diario da Venezia 81 (2024), episodio 5: cineprese fuori dal coro

08/09/2024 news di Giovanni Mottola

Nell'ultimo commento dal Lido parliamo dell'Italia provinciale e ai margini cantata da Pupi Avati, Carlo Mazzacurati e Nanni Moretti

pupi avati red carpet venezia 2024

Di chi moriva giovane il poeta greco Menandro asseriva che fosse caro agli Dei. Noi moderni invece, per celebrarne il talento, affermiamo il rammarico per quanta arte ancora avrebbe potuto donarci negli anni sottrattigli dal destino.

Nel caso di Carlo Mazzacurati, scomparso nel 2014 a 57 anni e celebrato alla Mostra con il documentario degli amici Mario Canale ed Enzo Monteleone “Carlo Mazzacurati, una certa idea di cinema“, crediamo che questo assunto non valga: la sensazione è che non avrebbe più potuto produrre molto altro. Non perché il talento gli mancasse o si stesse affievolendo, ma per il motivo opposto.

Da un lato egli era stato talmente bravo a raccontare la provincia italiana, soprattutto quella dell’est da cui proveniva, da non poter aggiungere molto altro alla sua stessa opera. E dall’altro bisogna considerare che uno sguardo originale come il suo necessita di altrettanta fantasia in chi deve essere ritratto.

Sarà che non possediamo gli occhi di Mazzacurati per trovare questi soggetti, ma in giro non ne vediamo più, quasi avessero deciso di nascondersi per sempre ora che i loro cantori migliori sono a loro volta scomparsi. Si può ormai dire del Provinciale quello che Fruttero & Lucentini dicevano del Cretino: ormai si è specializzato.

O forse è l’Uomo di mondo a essere diventato un Provinciale. Oggi che gli usi e i costumi si sono omologati li troviamo entrambi, l’Uomo di mondo e il Provinciale, a farsi i selfie e a frequentare gli stessi locali, vestiti allo stesso modo. Uno come Mazzacurati, che aveva dedicato la propria vita di regista al racconto di falliti buoni, che non ce l’avevano fatta per scelta di vita o per insuccesso ma non invidiavano i trionfi altrui, faticherebbe a trovare interesse nell’italiano di oggi e non saprebbe più di cosa parlare.

Carlo Mazzacurati - una certa idea di cinemaIl documentario su di lui è dunque due volte bello: perché oltre a farci ricordare chi fu lui, ci permette di ricordarci chi siamo stati noi. La riuscita dipende molto dal fatto che Canale e Monteleone gli furono sodali sin dai primi passi, e non a caso hanno potuto inserire squarci del suo primo film, Vagabondi, del 1983, che per una serie di peripezie non uscì mai nelle sale ed è oggi introvabile.

Inoltre, approfittando della filmografia non sterminata dell’amico, fatta di soli dodici lungometraggi, hanno passato in rassegna ciascuna opera, intervistandone i protagonisti e raccontando curiosi aneddoti relativi alla lavorazione. Ne estrapoliamo uno. In Un’altra vita (1992) c’è una scena in cui i due protagonisti Claudio Amendola e Silvio Orlando devono darsele in riva al mare, rotolandosi fino ad entrare in acqua: in quel momento sarebbe arrivato lo lo stop.

Amendola era molto più forte fisicamente di Orlando e finì col prevaricarlo. All’ingresso in acqua lo stop non arrivò e così Orlando prese un sacco di botte. Amendola gliele diede perché credeva che il suo compagno di set si fosse messo d’accordo col regista perché la scena continuasse; quest’ultimo non fermò perché credeva che fossero stati i due attori a mettersi d’accordo.

Questo almeno fu quello che, in disparte, raccontò ciascuno di loro a Orlando. Il quale, invece, ancor oggi sospetta che a mettersi d’accordo fossero stati Mazzacurati e Amendola, per riempirlo di lividi e divertirsi alle sue spalle. A chi volesse recuperare i film di questo padovano atipico consiglieremmo su tutti Il toro, che proprio a Venezia vinse il Leone d’Argento, ma anche l’esordio con Notte Italiana.

Questo film, tra l’altro, fu il primo prodotto dalla Sacher di Nanni Moretti, il quale avrebbe fatto più di una volta fatto ricorso a Mazzacurati in veste di spiritosissimo attore, regalandogli in particolare la parte indimenticabile del critico cinematografico che in Caro Diario si strugge di rimorso nel sentirsi rileggere le sue recensioni lusinghiere dallo sdegnato protagonista.

Per uno strano gioco d’incastri, la Mostra ha presentato anche, proprio di Moretti, la versione restaurata di Ecce Bombo (1978). L’autore ebbe molti dubbi sul titolo, perché all’inizio avrebbe voluto che si chiamasse “Sono stanco delle uova al tegamino” e poi in svariati altri modi.

Alla fine scelse l’urlo di battaglia, incomprensibile, di uno straccivendolo di Roma. Questi titoli così bizzarri sono del tutto coerenti con lo svolgimento, che non ha una trama precisa, ma è soltanto uno spaccato della gioventù degli anni Settanta, con i residui della cultura sessantottina e, al tempo stesso, un desiderio d’innovazione.

Goffredo Parise considera Ecce Bombo il fratello giovane de Il Posto di Ermanno Olmi. Pur nelle diversità di stile non è difficile comprenderne i motivi. In entrambi i film i ragazzi protagonisti vivono uno straniamento rispetto alla società che li circonda e non si sentono in grado di fornirle ciò che essa si aspetta da loro. Perlomeno, nel caso di Moretti, queste volevano essere le intenzioni di partenza. Perché poi il successo del film è dipeso dalla sua forte caratterizzazione comica, che il regista ha considerato a lungo non presente.

ecce bombo film morettiI ragazzi da lui descritti si comportano proprio come si comportava lui in quel momento, e soltanto oggi, passati i settanta, riesce anche a lui di cogliere doti che il film forse ha assunto solo col tempo e a dichiararsi felice all’idea di aver fornito con esso il ritratto di un’intera generazione. Una cosa dunque va detta: o quel film non fu capito da nessuno, oppure l’unico a non capirlo fu colui che lo aveva realizzato. Egli oggi fa un cinema completamente diverso.

“Moretti fa i film di Moretti, come Sorrentino fa i film di Sorrentino”. Questa sintesi azzeccata è stata proposta ieri da Pupi Avati nell’incontro con il pubblico, alla vigilia della presentazione del suo film di chiusura di questa edizione della Mostra, L’Orto americano, tratto da un suo romanzo.

Il concetto espresso sta a significare che ormai nessuno si cimenta più nei generi, che piacciono al pubblico perché richiedono il rispetto di regole elementari: una commedia deve far ridere, un dramma commuovere, un thriller spaventare.

Oggi i film sono tutti d’autore, quelli che nei titoli di testa s’indicavano una volta come “un film di” anziché “regia di”, e a vederli non va più la gente ma pochi intellettuali. Per questa sua ultima fatica Pupi Avati è tornato al genere, con cui era partito nel 1968 con Balsamus, l’uomo di Satana e che non aveva più ripreso per anni se si fa eccezione per Il signor Diavolo di qualche anno fa.

Avati aveva iniziato con il grottesco per poi arrivare a raccontare, nella sua interezza, l’uomo e il suo ambiente, fosse un ufficio (Impiegati), una scuola (Una gita scolastica), uno spogliatoio (Ultimo minuto). Ora al genere è tornato, forse per quel senso della morte che la cultura contadina da cui proviene ha sempre tenuto in alta considerazione e oggi è invece scomparso.

L’horror per Avati deriva dalle scampagnate che faceva con il nonno, quando quest’ultimo voleva scegliersi il cimitero migliore dov’essere sepolto. L’Orto americano inizia molto bene, con un bianco e nero alla Psycho, una musica tetra e un rigore nella sceneggiatura.

La storia dell’infatuazione di un giovane ferrarese per un’infermiera militare americana intravista dalla poltrona di un barbiere regge per la prima ora, quando il ragazzo, trasferitosi provvisoriamente in America, ritrova la foto della giovane nella casa della sua malandata vicina, scoprendo che si tratta della figlia. Con il ritorno in Italia, alla ricerca dell’amata, il film perde colpi, aprendo troppe strade e pasticciando tra esse. Pazienza.

l'orto americano avati filmE’ comunque un Avati migliore delle sue ultime fatiche e poi questo lavoro manterrà un’importanza marginale rispetto alla sua filmografia. Conta di più il fatto che la Mostra abbia voluto concedergli l’onore della chiusura.

Abbiamo voluto accorpare questi tre personaggi, Mazzacurati, Moretti e Avati, per lo stesso motivo per cui sembra averli accorpati la Mostra: per omaggiare un cinema popolare e desideroso di uscire dai binari allo scopo di raccontare figure non allineate, personaggi bizzarri e situazioni originali ma sincere, soprattutto in ambienti di provincia. Un cinema contrapposto tanto a quello dei kolossal quanto a quello più fanaticamente autoriale e impegnato. Un cinema che predilige la scrittura all’inquadratura. Un cinema sempre più difficile da trovare.

p.s. Mentre scriviamo queste righe finali dalla Mostra, ci giunge notizia delle dimissioni del Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Non abbiamo la competenza né la voglia per commentare il suo operato complessivo e tantomeno le vicende che hanno portato a questa decisione.

Ci limitiamo a segnalare che Sangiuliano, meritevolmente, aveva intrapreso una riforma finalizzata a rivedere i finanziamenti a pioggia nel mondo del cinema, dove si elargiscono milioni di euro di fondi pubblici, tramite contributi diretti e crediti fiscali, a opere che incassano poche migliaia di euro per il solo fatto che vengano realizzate dai soliti noti.

Nel caso in cui si dovesse scoprire che Sangiuliano è stato vittima di un complotto, avremmo forti indizi su quali ambienti vagliare per trovare i suoi carnefici.

Il teaser di L’orto americano: