Mark Wahlberg è al centro di un prodotto iper-espositivo tra reincarnazione e cliché hollywoodiani, ma senza profondità
Infinite è l’esempio paradigmatico di come l’high concept hollywoodiano si perda in un labirinto di reincarnazioni, voiceover didascalici e acrobazie dal retrogusto datato, laddove Matrix ridefiniva il concetto di identità digitale e The Old Guard rifletteva sull’etica dell’immortalità.
Il film segue Evan McCauley (Mark Wahlberg), uomo tormentato da visioni inspiegabili che scopre di essere un “Infinito”: un’anima in grado di ricordare tutte le sue vite passate. Coinvolto in una guerra millenaria tra i Believers, che vogliono proteggere l’umanità, e i Nihilists, determinati ad annientarla, Evan deve riscoprire le sue memorie per fermare l’apocalisse innescata da un’arma perduta.
Qui Wahlberg annaspa tra cliché e pallide evocazioni di grandeur.
Evan McCauley, reincarnazione di un guerriero ancestrale, incarna più che altro il burnout dello star system: non un Neo che scopre la verità nel codice, ma un “everyman” che smonta katane e narrativa con la stessa espressione smarrita, mentre Chiwetel Ejiofor si dibatte tra accenti mutanti e villainismo post-moderno, ricordando da lontano il carisma inquietante di Hugo Weaving o l’ambiguità tragica di Killmonger.
Antoine Fuqua dirige come se fosse legato al franchise prima ancora che al racconto, e il risultato è un film che sembra temere le implicazioni metafisiche che insinua: la reincarnazione non è qui una ricerca dell’essere, ma un pretesto per sequenze d’azione illogiche e un’estetica da cutscene PlayStation 3.
Anche nei momenti potenzialmente esistenziali — il trauma mentale scambiato per destino, l’orrore di ricordare tutte le vite perdute — Infinite gira a vuoto, preferendo elucubrare sulle regole della propria mitologia invece che usarle per creare tensione o empatia.
L’assenza di tensione drammatica si percepisce già nel prologo: una voce fuori campo ci spiega tutto ciò che dovrebbe essere scoperta narrativa, riducendo Wahlberg a un figurante del proprio mito, mai in grado di guidarlo. Il confronto con Virtuality, dove Denzel Washington affrontava una minaccia virtuale in un’epoca ingenua, è impietoso: almeno quel film conosceva il proprio tono. Qui l’unico registro è quello del trailer infinito.
L’azione è mal girata, montata in modo isterico, e i combattimenti — anche quelli sulla fusoliera di un aereo in caduta libera — non generano altro che apatia. La reincarnazione, potenzialmente una chiave narrativa per esplorare le continuità e le fratture del Sé, si riduce a pretesto narrativo per farci credere che Wahlberg sia stato samurai, agente segreto e fabbro ninja.
Il problema non è tanto il suo casting, quanto la serietà con cui il film pretende che ci crediamo. Lungi dall’essere un nuovo Matrix, Infinite non riesce neanche a sfiorare le domande che pone: cos’è l’identità quando i corpi cambiano ma le memorie restano? Chi decide cosa merita di essere ricordato? Il film non lo sa, e preferisce mettersi in posa.
Come se bastasse un elicottero in fiamme per nascondere un’anima vuota. Non c’è pathos, non c’è ironia, non c’è senso del tempo o del destino. Solo un’altra rincorsa verso l’illusione dell’eterno, che non è mai stata così effimera. Infinite, sì, ma solo le possibilità sprecate.
Di seguito trovate il trailer internazionale di Infinite: