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Intervista esclusiva a Gabriele Mainetti: “La mia paura è che non interessi più il cinema di genere”

02/11/2025 news di Alessandro Gamma

Al Festival di Sitges abbiamo incontrato il regista e produttore, parlando dei retroscena di Freaks Out, La città proibita e del futuro del cinema di genere italiano

Nel corso del Festival di Sitges 2025, il regista e produttore Gabriele Mainetti – autore di Lo chiamavano Jeeg Robot, Freaks Out e La Città Proibita – si è seduto con noi per una conversazione a tutto campo sullo stato del cinema italiano, le sfide del successo e il rapporto tra arte, pubblico e industria.

Con la sua consueta franchezza, Mainetti ha riflettuto sul futuro della sala, sull’equilibrio tra qualità e popolarità e sui limiti creativi imposti dal sistema produttivo contemporaneo.

Se ti dicessero che nei prossimi dieci anni potresti fare solo film brutti, ma che saranno amati dal pubblico, accetteresti? O preferiresti girare capolavori che però nessuno va a vedere?

Oh, madonna mia. Allora… secondo me il cinema va fatto perché è ben visto. Però le cose brutte non riescono a comporre nessuno. Cioè, non è detto che grandi film continuino sempre a rinforzare il pubblico. Nel momento in cui riesco a pensare, posso rispondere al successo… che in realtà, certo, produttivamente non è l’ideale fare film costosissimi che poi non vanno.

Ad esempio, nessuno si aspettava che Lo chiamavano Jeeg Robot avesse quel successo, che trovasse quel pubblico. All’inizio sembrava il contrario: un film piccolo, senza soldi, e invece è esploso. Più vai avanti, più cerchi di fare meglio, più cerchi di fare film belli. Tant’è che si dice che la ‘trilogia del dollaro‘ è la migliore che si possa fare: inizi con un film che pensi non possa essere superato dal secondo… e poi lo fai. Però, andando avanti, ha avuto meno successo. Forse perché la saggezza cresce, e un po’ frena la follia.

Poi, c’è anche la realtà produttiva: se il film va male, purtroppo si riflette sul resto del mondo. È come se ti dicessero: “Guarda, è andato male”. E questo in Italia si sente molto, c’è sempre una sorta di controllo. Ma io dico: che cazzo me ne frega. Io preferisco fare un film con grande responsabilità, quella di restituire al pubblico almeno due ore – o tre, se serve – di vita. Qualcosa che abbia un’unicità. Dire “senza precedenti” è eccessivo, ma noi siamo tutti unici. Quindi se riesco a trovare il modo più chiaro per dire quella cosa, ho raggiunto una soluzione.

freaks out mainetti film 2021Quando mi siedo in sala e penso che qualcuno mi ha dato il suo tempo, la sua fiducia, e poi si trova davanti una stronzata… io mi sento in colpa. Perché la gente ha bisogno del cinema. In Italia, purtroppo, il pubblico è un po’ viziato, un po’ disabituato, un po’ diffidente. Ma io amo profondamente il cinema. Al Science+Fiction di Trieste, tra l’altro, ci sarà un incontro sulla “salute del cinema in Italia”. Ecco, non è che mi entusiasmi… ma è necessario. L’Italia è un paese in cui il cinema non gode sempre di buona salute. E va detto, chiaro e tondo.

Nel passaggio da Lo chiamavano Jeeg Robot a Freaks Out e poi a La città proibita, c’è stata una convinzione creativa che avevi e che poi hai drasticamente cambiato o abbandonato?

Sì, c’è. La visione che avevo ai tempi di Freaks Out e poi de La città proibita è cambiata. Anche se – guarda – questa è una cosa che andrebbe detta: in Italia, soprattutto nella parte centrale del paese, tutti amano Lo chiamavano Jeeg Robot. Mi dicono sempre: “È il tuo capolavoro, devi farne un sequel!”. E invece Freaks Out, per certi aspetti, è stato un film decisamente imperfetto, in cui a tratti sono scivolato. È inevitabile: Jeeg è un film completamente imperfetto, Freaks Out è ancora più grande, più complesso… e ancora più imperfetto. È ovvio. Come lo è anche La città proibita, che però per molti è il mio film più bello.

Io ho la mia idea: La città proibita è il mio terzo film, e come regista lì sono più solido. È un film più compatto, più sicuro nella regia, e anche più “istintivo” nel modo giusto. Jeeg era figlio dell’istinto puro, fatto con la pancia, con una propulsione quasi irrazionale, contro tutte le regole. E quella cosa lì – quella “pancia” – si sente. La città proibita invece è più semplice, è una storia d’amore. Freaks Out, al contrario, nasce dalla grande ambizione e dall’amore sconfinato per il cinema, ma forse è proprio lì che rischi di perdere un po’ di equilibrio. E poi c’è una cosa curiosa: fuori dall’Italia, nel mondo, per tutti il mio film è Freaks Out. Tutti.

Quindi per me è inutile che qualche critico italiano continui a dirmi “hai fatto bene a tornare alla semplicità con La città proibita”.
La città proibita ha raccolto un’eredità, ha ripreso certe cose più dirette, ma Freaks Out resta il film che ha aperto le porte all’estero. E poi Freaks Out è un film storico, mentre La città proibita e Jeeg sono contemporanei. Questa differenza di epoca cambia anche il modo di raccontare, e per me fa la differenza.

Devo dire la verità: La città proibita è un film che ho fatto perché non sono riuscito a fare quello che volevo davvero fare. Il film che volevo realizzare era un altro, un progetto completamente diverso, nato proprio sull’onda di Freaks Out. Ma non ci sono state le condizioni: me lo avrebbero anche fatto fare, ma non sarebbe potuto uscire in sala, e per me quella era una condizione non negoziabile. Allora ho detto no. È stata una scelta di rigore, di rispetto verso il cinema.

Doveva essere un film per una piattaforma?

Sì, doveva essere un progetto ibrido, cinema e piattaforma insieme. La piattaforma avrebbe pagato per poterlo far uscire in sala, ma non era chiaro come. E il fatto che non fosse chiaro mi ha fatto dire: “Non lo faccio”. Non volevo trovarmi in una zona grigia. Era una cosa un po’ complicata, e non mi sentivo di accettare compromessi.

santamaria jeeg robot filmQuindi non hai abbandonato un’idea, ma un certo modo di produrre?

Esatto. Non ho abbandonato nulla in termini creativi: ho solo capito che bisogna migliorare sempre, film dopo film. Sento che questo percorso registico sta crescendo, sta maturando. Le storie cambiano, a volte sono più di pancia, altre più di testa, altre ancora più spettacolari… ma l’obiettivo resta sempre lo stesso: fare cinema che resti, che abbia senso.

Hai mai temuto che Jeeg Robot restasse un unicum, un evento irripetibile nel cinema italiano?

Sì, ogni tanto ci penso. Jeeg Robot è stato un evento incredibile, e se guardiamo ai numeri del cinema di genere negli ultimi quindici anni, Jeeg sta ancora lì, tra i primissimi posti. Ma secondo me non basta, non è abbastanza per la portata che ha avuto. Tutti speravano che io, con Freaks Out, potessi fare di più.

Siamo stati anche un po’ sfortunati: Freaks Out è uscito durante il Covid, ha fatto 2 milioni e 7 in sala. Se riporti quei numeri a un periodo normale, sarebbe stato almeno l’80% in più. Quindi, in teoria, avrebbe superato Jeeg Robot.

Poi è arrivata La città proibita, ma lì ci sono state tante polemiche sulla distribuzione: se muovi un film dopo tre settimane e mezzo dall’uscita, io non so quanto sia giusto – marketing o no. E poi, insomma, è un film con Sabrina Ferilli e Kung Fu! È un mix particolare, richiedeva un tipo di lancio diverso.

Hai citato più volte il pubblico italiano e la risposta agli incassi. Ma i tuoi film hanno comunque budget molto importanti per il nostro cinema…

Sì, certo. Jeeg Robot ha incassato tantissimo: 1,7 milioni di biglietti, 5,3 milioni al box office. È stato venduto in tutto il mondo, e poi anche alla pay TV, che all’epoca non era ancora regolamentata come oggi. Oggi invece ogni film viene pre-pagato, ci sono accordi precisi prima dell’uscita.

Ma questo per dire che già allora la mia società di produzione non poteva permettersi un film come Freaks Out. È stato un disastro produttivo nel senso buono: partiva da un’idea chiara, poi è scivolato in un over-budgeting importante. Però, se pensi a quello che costano certi film all’estero, siamo stati comunque contenuti.

Tanti giornalisti hanno detto peste e corna del fatto che fosse costato troppo. Ma guarda il cinema di oggi, post-Covid: pensare di girare 26 settimane con 12 milioni e 800 mila euro è pochissimo. Parlando con Mario Gianani, gli ho chiesto: “Ma quanto ti sarebbe costato Freaks Out con Wildside?” Quasi 30 milioni mi ha risposto. Quindi alla fine siamo stati virtuosi.

La città proibita, per dire, ha avuto 13 settimane di riprese, non 26, ma è costato di più: 16 milioni e 800 mila euro. E questo è un problema: non possiamo continuare a fare film così costosi che poi incassano troppo poco.

La Città Proibita film mainettiParlando di Wildside, il film è stato coprodotto da loro …

Sì, La città proibita è una produzione importante, con una società forte come Wildside. Ma anche loro, come tutti, oggi soffrono il sistema. Secondo me Wildside ha fatto un lavoro enorme, ma non è riuscita – e non per colpa loro – a creare un ammortamento come può fare una società più piccola, con costi più agili. Un film come La città proibita avrebbe potuto costare un po’ di meno, forse, ma queste sono supposizioni.

Resta il fatto che è un film con un marketing imponente, eppure non ha superato i 5 milioni. E questo è il nodo: se spendi 12 milioni e incassi 5, è un problema. Ma se lo stesso film lo vendi in mezzo mondo – Germania, Russia, India, Taiwan, Giappone, Corea, Indonesia – allora la prospettiva cambia. Lì sì che ci stai dentro.

In Cina, invece, non uscirà per via della storia del figlio unico. Ma in generale La città proibita sta andando bene, sta avendo un suo percorso. E questo, oggi, è già tanto.

C’è qualcosa che ti preoccupa davvero nel futuro del cinema italiano?

Sì. La mia paura più grande è che non interessi più il cinema di genere. Perché se non interessa, io non posso più fare film così costosi, così ambiziosi. Se il pubblico sceglie sempre la solita commedia, quel tipo di cinema sparisce. E sarebbe un peccato, perché noi possiamo farlo bene, e possiamo ancora emozionare il mondo.

Se il tuo prossimo film fosse diretto da un’intelligenza artificiale addestrata sui tuoi lavori, in cosa pensi che ti rappresenterebbe male?

Ah, no, non ci arriverà mai. Però – ecco – questa cosa deve spingerci a usare di più il cervello. Non dobbiamo chiedere agli attori di imitare i loro miti, dobbiamo chiedere loro di trovare la verità dentro sé stessi. Io credo che il nostro “Santo Graal” sia proprio questo: scoprire la verità che abbiamo dentro. È l’unica cosa che ci distingue dalle macchine. Se devo “scivolare” in un’arte artificiale, allora preferisco fermarmi. Perché ci sono tanti film inutili, prodotti solo per riempire spazi. Io dico: date i soldi ai registi che hanno una voce. Fate fare loro grandi film. Se no, l’intelligenza artificiale ci seppellirà nella mediocrità.

Perché, vedi, adesso anche la scrittura è in crisi. Tutti pescano da altri. Ma l’arte non è copia. Quando cammini per strada e pensi a un film, quello è il cinema. È la vita che ti parla. L’intelligenza artificiale non può farlo. E poi, se vado in uno studio e mi dicono: “Fai questo, fai quello, già visto, già fatto…” allora dico: “E che cazzo c’entra l’intelligenza artificiale? Se devo fare un film già fatto, tanto vale che lo giri lei!” E ha ragione chi dice che la soluzione è l’originalità. Per il pubblico, per noi, per gli attori. Dobbiamo ritrovare l’urgenza del racconto.

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