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Intervista esclusiva a Sean S. Cunningham: il creatore di Venerdì 13 racconta Jason, l’horror e l’evoluzione della paura

24/10/2025 news di Alessandro Gamma

A Sitges 2025, il regista riflette su quarant’anni di cinema dell’orrore, dal realismo crudo degli anni ’80 alle nuove paure nate tra tecnologia e intelligenza artificiale

sean cunningham sitges 2025

Regista, produttore e sceneggiatore americano, Sean S. Cunningham è il padre di una delle saghe più iconiche della storia del cinema horror: Venerdì 13. Con la creazione di Jason Voorhees, il killer della maschera da hockey, ha ridefinito per sempre il genere slasher e l’immaginario della paura.

Dopo aver lanciato la carriera di Wes Craven e prodotto cult come la serie House, Cunningham torna a riflettere sul rapporto tra sangue, psicologia e società: dagli anni ’80 fino alla nuova era del digitale e dell’intelligenza artificiale.

In occasione del Festival di Sitges 2025, lo abbiamo incontrato per una intervista esclusiva in cui il maestro dell’horror racconta il passato, il presente e il futuro di Friday the 13th – e perché, a distanza di oltre quarant’anni, Jason è ancora tra noi.

Oggi molti film slasher tendono a diventare formulaici, in un certo senso, e proprio per questo Venerdì 13 resta disturbante nella sua semplicità. Se dovesse rifarlo oggi, quale elemento manterrebbe assolutamente e quale eliminerebbe senza esitazione?

Se dovessi rifare Venerdì 13 oggi, la cosa che sicuramente manterrei sarebbe il personaggio di Jason, trattandolo come uno squalo — ed è esattamente ciò che è stato nei film che hanno avuto successo. È curioso, perché in questo modo si offre al pubblico ciò che si aspetta. Chi va a vedere Venerdì 13 vuole vedere Jason fare le sue tipiche “cose da Jason”, e non cerca qualcosa di diverso o “migliore”. Come mi ha detto un amico, a volte vuoi solo andare da McDonald’s per prendere un Big Mac. Non vuoi che qualcuno ti dica: “Devi assolutamente provare questo fantastico panino di pesce”. No, tu vuoi un Big Mac, prendi un Big Mac e finisce lì. Ecco, io cercherei di rendere la storia che lo circonda il più interessante possibile, ma partirei da Jason, così com’è sempre stato.

Quindi non cambierebbe nulla di sostanziale rispetto al film originale, se lo rifacesse oggi?

Beh, il primo film in realtà non aveva Jason. Cercava di essere un tipo diverso di film. Ma poi, nel corso di dieci o più capitoli, il pubblico ha cominciato ad aspettarsi da Jason certe cose. E quando lui le fa, lo spettatore resta soddisfatto; se invece non le fa, lo spettatore si sente deluso.

camp crystal lake film 1980 venerdì 13Eppure, il primo film ebbe un grande successo, anche senza Jason

Sì, assolutamente. Fu molto, molto fortunato. Ma è ciò che è diventato nel tempo, più che ciò che era all’inizio, perché all’epoca nessuno aveva mai visto qualcosa del genere. Era un esperimento, e la gente ne rimase colpita proprio perché era nuovo.

Lei è stato il produttore de L’ultima casa a sinistra, diretto da Wes Craven. Un film che è diventato una pietra miliare dell’horror. Che ricordo ha di quell’esperienza?

Ricordo L’ultima casa a sinistra come un periodo di grande entusiasmo. Eravamo entrambi molto giovani e volevamo realizzare un film diverso dal solito, qualcosa di crudo e coinvolgente. Ma era come uscire di notte a fare graffiti di nascosto, sperando di non essere beccati. Giravamo con pochissimi mezzi, praticamente senza soldi, cercando di raccontare una storia forte. E quella storia, a un certo punto, prendeva una svolta totalmente inaspettata: all’inizio conosci due ragazze dolcissime, e pensi “ok, moriranno di certo”, ma invece no – almeno non subito. Man mano che ti affezioni a loro, la violenza che subiscono diventa ancora più scioccante e dolorosa. E poi arriva la vendetta, che è la seconda metà del film. Personalmente non credo che la vendetta sia una grande motivazione per dei personaggi, ma quello era il tema. E noi lo sapevamo: volevamo solo fare un film potente, anche se imperfetto. Eravamo solo ragazzi che cercavano di lasciare un segno.

Venerdì 13 viene spesso considerato un film di puro intrattenimento, ma contiene anche elementi più raffinati, quasi “argentiani”: la figura della madre, l’uso della soggettiva. È mai stato influenzato dai registi europei, come Dario Argento o Mario Bava, consapevolmente o meno?

Ho visto i film di Argento e Bava, ma soltanto dopo aver fatto Venerdì 13. Prima non avevo visto nulla di loro, e credo che mi avrebbe davvero aiutato se li avessi conosciuti prima. Soprattutto Argento: era così intelligente. Creava situazioni che io, all’epoca, consideravo delle vere magie. Guardavi la scena sapendo che non stava accadendo davvero, ma era costruita così bene da sembrarlo. Come nei numeri dei prestigiatori: quando vedi il mago tagliare in due una donna e portare via le due metà, sai che non l’ha uccisa davvero, ma l’illusione è perfetta. E quello era proprio il bello: creare qualcosa che non esisteva ma sembrava reale. Tutto questo è cambiato quando abbiamo iniziato a usare i computer: oggi si può realizzare qualunque cosa. Ma all’epoca, quando giravi su pellicola, tutto ciò che vedevi era davvero accaduto davanti alla macchina da presa. Ora non è più così, e per questo, oggi, la macchina da presa non è più “affidabile” nello stesso modo.

In questo senso, la musica diventa ancora più importante, come nei film di Argento …

Sì, esattamente. La musica ti dice cosa devi provare in una scena. Se ti senti al sicuro, se devi essere in tensione, o se stai per avere paura. Ma non si tratta solo di una melodia: è qualcosa che lavora sul subconscio. Nessuno ascolta davvero la musica in modo consapevole durante un film – o almeno, non dovrebbe. Certo, ci sono colonne sonore meravigliose che poi ascolti da sole, ma quando sei immerso nel film, la musica deve solo guidarti emotivamente. Ed è per questo che mi è piaciuto così tanto lavorare con Harry Manfredini: è un grande musicista e anche un ottimo insegnante. Mi ha insegnato moltissimo su come funziona la musica in un film.

Aveva libertà totale nel comporre o lei dava indicazioni precise?

No, non gli davo indicazioni. L’unico tipo di “consiglio” che potevo dargli era qualcosa come: “Non mi piace”, ma non è un vero consiglio tecnico. A volte una musica non ti piace perché ti fa provare un’emozione sbagliata, o perché è troppo invadente. Ma è sempre un processo di collaborazione. Un buon regista deve ascoltare ciò che il compositore crea, capire le sensazioni che vuole trasmettere, e usarle per raccontare meglio la storia. Alla fine, tutto si riduce sempre a quello: raccontare bene la storia.

pamela venerdì 13 film slasherUna domanda sui diritti di Venerdì 13: lei li possiede ancora?

No, non più. Il contratto che avevamo con Victor Miller è scaduto – non doveva succedere, ma è successo. Così lui, o meglio il suo avvocato, ha rivendicato una parte dei diritti. Io ho contestato la cosa, siamo andati in tribunale… e abbiamo perso. Pazienza. Se la serie che la A24 sta preparando riuscirà a decollare, mi piacerebbe essere coinvolto almeno un po’, ma non sarò un proprietario. Possiedo molti dei diritti legati ai vecchi Venerdì 13, ma tutto ciò che riguarda il futuro andrà ad altri.

Negli anni ’80 i suoi film hanno definito la paura americana come qualcosa di domestico, quotidiano. Crede che oggi l’orrore si sia spostato altrove, magari nel digitale o nel sociale? Oggi si parla spesso di “elevated horror”, mentre lo slasher sembra passato di moda. Pensa che la paura sia cambiata?

Quelli sono solo strumenti. La grande differenza, oggi, è che puoi mostrare tutto quello che vuoi. Puoi far vedere un cuore che batte, estrarlo dal petto, guardarlo, dargli un morso, rimetterlo dentro e continuare la giornata. Oggi puoi farlo. Ma questo non significa raccontare una buona storia. La domanda, quindi, è la stessa che vale per la musica: la musica ti dice come sentirti, gli effetti speciali ti dicono cosa sta succedendo – ma solo fino a un certo punto. Oltre quel limite, non bastano più. E non parlo solo delle piattaforme “elevate” – e oggi ne abbiamo molte – ma anche dell’intelligenza artificiale. Certo, l’AI può fare cose meravigliose, ma anche la grafica computerizzata lo fa ormai da anni. Il punto è che tutti questi strumenti sono come proiettili nella tua pistola: li puoi usare, ma non devono risolvere tutto.

Le tre cose più importanti in un film sono sempre le stesse: la storia, la storia e la storia. Non gli effetti speciali. Puoi avere un film bellissimo, visivamente straordinario, ma se non racconta qualcosa che tocca davvero lo spettatore, non funziona. È possibile che il pubblico reagisca bene, ma non lo puoi sapere. Di certo non correrà al cinema solo per vedere un nuovo effetto visivo. Magari una volta sì – quando certe cose non si erano mai viste – ma oggi abbiamo già visto tutto, e due volte.

E proprio per questo bisogna tornare ai principi base: raccontare una storia semplice e farla funzionare. Se guardi Il Re Leone, per esempio, è una storia semplicissima, ma è uno dei copioni meglio strutturati di sempre. Se uscisse oggi, con quella stessa chiarezza narrativa, sarebbe comunque meraviglioso. Non importa se l’animazione fosse iperrealistica o se il pelo dei leoni si muovesse in modo speciale. Al centro c’è una storia di formazione, di responsabilità personale, familiare e verso il mondo in cui si vive. È questo che conta. Sì, certo, ci sono i leoni che corrono, ma sotto c’è una storia davvero significativa. Non so se questo risponde alla domanda, ma è così che la vedo.

Se dovesse nominare alcuni film horror recenti che le sono piaciuti, quali sceglierebbe?

Ho un vuoto di memoria… ma direi che mi è piaciuto IT. Almeno per la prima parte – diciamo per le prime sette ore! (ride) Ma sì, penso che sia stato realizzato molto bene. Il problema è che, di solito, le sceneggiature horror non sono buone sceneggiature. Appena una storia è scritta bene, la si smette di chiamare “film horror” e diventa un “thriller medico”, un “fantascientifico”, un “film d’azione nello spazio” o qualcosa del genere. Ecco perché mi è difficile pensare a un grande horror recente. Prendiamo Terrifier, per esempio: non è un film che mi ha coinvolto emotivamente, ma ho pensato “wow, avete fatto un ottimo lavoro in quello che volevate fare”. È un film che funziona nel suo intento, anche se non mi ha toccato personalmente.

venerdì 13 film 1980 kevin baconQuando Venerdì 13 uscì, la critica fu molto dura, ma il pubblico lo sostenne con forza. Come ha vissuto quel contrasto tra i media e il successo popolare?

A me piace leggere le recensioni dopo aver visto un film. Prima no. Evito persino i trailer, se posso, perché voglio essere sorpreso dalla storia. Il problema della critica è che spesso i critici pensano che la cosa più importante sia quello che scrivono loro, non il film che tu vedi. La scrittura, non l’opera. Non mi aspettavo recensioni positive per Venerdì 13, non era un film fatto per i critici. Anche se, ironicamente, oggi siamo qui a Sitges a parlarne. Ma già dopo un anno la gente diceva: “C’è un nuovo film horror, ma non ha il carattere o l’ironia di Venerdì 13”. E così, proprio grazie al successo popolare, il film è diventato un punto di riferimento. Poi sono arrivati i seguiti. Non credo che qualcuno lo abbia mai considerato un film “serio” in senso artistico — ma sicuramente lo è stato in senso economico. (sorride)

La saga ha avuto molti sequel, spesso lontani dallo spirito dell’originale. L’ha mai infastidita il fatto che Jason sia diventato un’icona ma anche un cliché, che abbia un po’ “divorato” tutto il resto?

No, per niente. Penso che Jason dovesse diventare un’icona. Una volta che lo diventa, chi investe nel film e chi lo distribuisce sa esattamente cosa sta facendo e cosa aspettarsi. Tutto diventa chiaro. Se Jason cambiasse ogni volta — o, che so, diventasse una donna — sarebbe un disastro. La sua forza è proprio la coerenza. Ricordo che una volta qualcuno disse che Venerdì 13 era un film “operaio”, un film per la gente comune, non per i critici snob. E io non ho nessun rimpianto per questo.

Vorrei chiederle del montaggio originale, il primo cut di Venerdì 13. Ho letto che durava circa 2 ore. È vero? E se sì, c’è qualcosa di quella versione che vorrebbe recuperare?

No, il primo montaggio non è mai durato due ore. Non so esattamente quanto fosse lungo, ma il vero problema era arrivare ai 90 minuti. All’epoca era difficile raggiungere quella durata: il film più corto funziona meglio perché scorre più rapido e mantiene alta l’attenzione, ma allungarlo fino a un’ora e mezza era complicato.

Ricordo bene una delle prime proiezioni interne, praticamente identica a quella che poi avete visto voi, ma senza musica e senza effetti sonori. Era solo per capire “che film avevamo”. C’erano Wes Craven e Harry Manfredini, e ne parlammo dopo la visione. Wes, che era un amico, mi disse: “Molto interessante… ma è terribilmente lento.” Poi, nel giro di un mese o poco più, facemmo un’altra proiezione: stavolta con la musica e i suoni. E all’improvviso funzionava tutto — in modo incredibile. Il film era lo stesso, ma sembrava completamente diverso.

Adrienne King venerdì 13Non avevo mai avuto materiale extra o versioni lunghe. Quando consegnammo Venerdì 13 alla MPAA per ottenere il visto censura, tolsi in tutto circa 14 secondi. Davvero pochissimo, niente tagli enormi. E onestamente, se avessi avuto un montaggio di due ore, mi sarei sparato (ride). Un film deve muoversi, deve avere ritmo.

Forse la scena della morte di Kevin Bacon era leggermente più lunga, ma non credo molto. Funziona perfettamente così com’è. Quella sequenza l’avevamo pensata come un piccolo trucco di magia: lui è a letto, e sembra al sicuro, perché la ragazza è andata via in un posto pericoloso, quindi pensi “lui è ok”. Ma noi sappiamo che sopra di lui, sul letto a castello, c’è un ragazzo morto che perde sangue. Vediamo le gocce cominciare a cadere… e la nostra attenzione si concentra tutta su quel punto, proprio lì. E invece – zac! – dal lato opposto dello schermo arriva la freccia. È questo che la rende così efficace: la distrazione visiva. Avevamo dovuto applicare protesi speciali e studiare il trucco nei minimi dettagli per far sembrare tutto realistico.

A proposito di effetti e suono, qual è stata la scena che l’ha sorpresa di più una volta aggiunta la colonna sonora?

Senza dubbio la scena più riuscita e sorprendente è quella in cui Jason emerge dal lago. È stata difficilissima da girare, e non avevo idea se sarei riuscito davvero a usarla, perché sembrava quasi provenire da un altro film. Ma la musica che la accompagna è perfetta: è la stessa che chiude il film. Il sole è sorto, la polizia è arrivata, la protagonista è in salvo, in un paesaggio bellissimo. Tutto trasmette serenità e sollievo… e poi boom. È proprio in quell’istante che arriva Jason. Il merito più grande, direi, è di Harry Manfredini: la sua musica era così ricca, così bella. E quando Jason salta fuori dall’acqua, Harry non ha aspettato il battito successivo: l’ha fatto tra un battito e l’altro. Quel piccolo scarto ha reso tutto più imprevedibile, più scioccante. È lo stesso principio usato per la morte di Kevin Bacon: sorprendere nel momento esatto in cui lo spettatore si sente al sicuro.

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