Dan Stevens è al centro di un prodotto che tenta il colpo con la soggettiva videoludica e i mondi paralleli, ma resta un esercizio stilistico privo di vera profondità
Kill Switch di Tim Smit è un film che incarna in modo quasi paradigmatico le ambizioni e i limiti della fantascienza indipendente contemporanea: un’opera costruita attorno a un’idea centrale accattivante – la narrazione in soggettiva – ma incapace di strutturare su quella base un mondo narrativo coerente, denso o tematicamente significativo.
Derivato dal corto virale What’s in the Box? (2009), Kill Switch promette un viaggio tra mondi paralleli, droni di sorveglianza, corporazioni onnipotenti e catastrofi ambientali, ma consegna allo spettatore una demo tecnica priva di anima, una corsa in soggettiva che, come un videogioco, non lascia spazio né all’approfondimento né alla riflessione.
In superficie, l’operazione sembra affascinante: Will Porter (Dan Stevens), un ex pilota NASA, viene assoldato dalla compagnia Alterplex per trasferirsi su una Terra parallela – The Echo – che funge da serbatoio energetico per la Terra reale. Quando la missione si complica, Will si ritrova sperduto in un scenario post-apocalittico olandese, armato solo di una scatola nera detta “redivider”, e costretto a raggiungere un’enigmatica torre per salvare entrambi i mondi. Il problema è che la narrazione si sviluppa attraverso una visuale in prima persona, come in uno sparatutto in soggettiva, annullando qualsiasi tensione narrativa per lasciare spazio a un susseguirsi di ostacoli ludici più che drammatici.
Dan Stevens, noto per il suo ruolo nella serie Legion, offre una performance che oscilla tra l’entusiasmo confuso e l’apatia espositiva, bloccato in un ruolo privo di caratterizzazione. Il suo Will è più un avatar che un personaggio: prende decisioni improbabili, reagisce poco e non sviluppa un arco narrativo credibile. La sua motivazione principale – proteggere la sorella e il nipote – viene citata ma mai davvero sentita, ingabbiata in flashback lenti e impersonali che spezzano il ritmo e svuotano di pathos le sue azioni.
Anche le trovate visive – come l’interfaccia alla Minority Report, le armi potenziabili e il design delle torri – sono tutte riconducibili al lessico videoludico. Ma se l’obiettivo era emulare la libertà e l’immersione di un gioco in prima persona, il risultato è l’opposto: Kill Switch è una visione rigidamente banale, priva di urgenza, dove lo spettatore viene trascinato da una sequenza all’altra con la sensazione frustrante di non poter mai interagire né comprendere pienamente ciò che accade.
Il film tenta talvolta di suggerire una riflessione morale – la scelta finale di Will, il sacrificio personale per un bene collettivo – ma è un tentativo timido, affogato in un mare di effetti digitali e luoghi comuni. L’eco di opere come Primer o Donnie Darko si perde in una struttura narrativa che privilegia la spettacolarità a basso costo rispetto alla profondità concettuale.
In ultima analisi, Kill Switch è un esempio lampante di cinema sci-fi a formula ridotta, dove l’invenzione tecnica non riesce a sostenere la povertà tematica e narrativa. Nonostante l’impegno produttivo e qualche spunto interessante – come l’idea di una “Terra-clone” sfruttata in modo predatorio – il film manca della visione necessaria a trasformare la sua cornice cyberpunk in un racconto incisivo. È un universo parallelo che si dimentica facilmente, non perché privo di sorprese, ma perché costruito su basi troppo fragili per lasciare un’impronta duratura.
Di seguito trovate il trailer di Kill Switch: