Horror & Thriller

La donna della cabina numero 10: la recensione del mystery-thriller con Keira Knightley (su Netflix)

Simon Stone firma un'opera elegante e senz’anima, che spreca nel vuoto la protagonista e il cast di comprimari

Il cinema del mistero ha sempre trovato nel mare un palcoscenico ideale: isolamento, tensione claustrofobica, riflessi d’acqua che amplificano il dubbio. La donna della cabina numero 10 (The Woman in Cabin 10), tratto da un romanzo di Ruth Ware e diretto da Simon Stone, parte da premesse affascinanti – un giallo chiuso su uno yacht di lusso, un gruppo di ricchi ambigui, una giornalista che assiste a un delitto negato da tutti – ma fallisce nel tradurre il potenziale del racconto in autentica suspense.

Si muove tra suggestioni hitchcockiane e ambizioni sociali, ma senza la precisione né l’intelligenza necessarie per unire tensione, critica e introspezione.

Il primo limite è strutturale: la regia privilegia la superficie visiva rispetto alla profondità drammatica. Lo yacht, invece di essere un microcosmo inquietante, diventa un fondale statico. I toni grigio-verdastri, la fotografia piatta e l’illuminazione dimessa appiattiscono l’immaginario visivo, cancellando la dimensione sensoriale che dovrebbe sostenere un thriller ambientato in mare aperto. La scelta cromatica, pensata forse per riflettere il trauma interiore della protagonista, finisce per uniformare tutto in un grigiore emotivo che anestetizza lo sguardo.

L’intreccio, in teoria un classico “whodunit”, procede con inerzia. La giornalista Laura Blacklock (Keira Knightley) si trova intrappolata tra ricchi arroganti e una verità che nessuno vuole riconoscere: la sparizione di una donna dalla cabina accanto. L’idea di fondo – il potere che nega l’evidenza e isola chi denuncia – avrebbe potuto generare un discorso lucido sull’impunità e sulla violenza simbolica dell’élite. Invece, il film riduce tutto a un susseguirsi meccanico di indizi trovati e perduti, sospetti inconsistenti e dialoghi che spiegano troppo. Non si crea mai la tensione morale del “dubbio”, solo una stanchezza crescente.

Keira Knightley offre una prova solida ma ingabbiata. Il suo personaggio è prigioniero del cliché della “donna traumatizzata che deve redimersi”, un archetipo logoro che toglie forza all’indagine. Il dolore per la morte di una fonte giornalistica diventa un pretesto narrativo, non una chiave psicologica: invece di umanizzare la protagonista, la riduce a funzione narrativa. Il trauma serve solo a giustificare la possibilità che “si stia immaginando tutto”, ma il film non osa mai davvero entrare nel territorio dell’ambiguità percettiva. Lo spettatore capisce subito che la minaccia è reale, e con essa svanisce ogni ambiguità.

Il cast di contorno – Guy Pearce, Hannah Waddingham, Kaya Scodelario, David Morrissey – è sprecato in ruoli bidimensionali. Gli ospiti del panfilo, teoricamente incarnazioni della ricchezza decadente e dell’indifferenza morale, restano figure ornamentali. La critica sociale si riduce a un gesto d’arredamento: i ricchi sono vuoti, ma il film non trova mai un modo interessante per dirlo. Là dove opere come Triangle of Sadness o The Menu utilizzavano la satira per demolire l’arroganza dell’élite, Stone si limita a mostrarne la noia, finendo per condividerla.

Anche sul piano formale, la tensione si sfilaccia. Il montaggio manca di ritmo, l’azione non cresce ma ristagna. Ogni volta che Laura sembra avvicinarsi alla verità, la sceneggiatura preferisce un ostacolo generico o un dialogo esplicativo. Non c’è mai un’idea registica che trasformi lo spazio chiuso dello yacht in una prigione mentale: i corridoi e le cabine, anziché opprimere, restano semplici location. L’acqua, elemento simbolico di dissoluzione e vertigine, non diventa mai linguaggio.

Il finale conferma la mediocrità dell’impianto: il colpevole emerge presto, le motivazioni sono fragili, e la tensione emotiva è sostituita da un epilogo moralista e prevedibile. Il film tenta di denunciare la corruzione morale dei potenti, ma lo fa con la stessa superficialità dei personaggi che vorrebbe criticare. Tutto si risolve in un giallo di maniera che confonde sobrietà con mancanza di visione.

La donna della cabina numero 10 è, in definitiva, un thriller senz’anima. Un film che vorrebbe parlare del potere e della percezione, ma finisce per riflettere solo il proprio vuoto. L’indagine di Laura, da potenziale metafora della ricerca della verità in un mondo che nega la realtà, diventa una corsa su un ponte levatoio che non porta da nessuna parte. È l’immagine più esatta di un cinema che osserva il male dall’alto, con distacco, e dimentica che il mistero, per vivere, ha bisogno non solo di indizi, ma di umanità.

Di seguito trovate il trailer internazionale di La donna della cabina numero 10, su Netflix dal 10 ottobre:

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Published by
Gioia Majuna