Il regista torna con la solita estetica impeccabile, ma gravata dal vuoto emotivo. Un'opera bellissima da vedere, ma incapace di coinvolgere davvero
Wes Anderson ha sempre fatto cinema come se costruisse un orologio: ogni ingranaggio levigato a mano, ogni ticchettio calibrato, ogni lancetta perfettamente sincronizzata. Ma cosa succede quando l’orologio continua a funzionare impeccabilmente e, tuttavia, non segna più il tempo di nessuno?
La Trama Fenicia (The Phoenician Scheme) è la risposta a questa domanda. Un film che contiene tutto ciò che Anderson sa fare – e nulla di ciò che non ha ancora imparato a fare.
In superficie, l’opera è un ennesimo giro sulla giostra del suo universo: simmetrie impeccabili, camei illustri, font in Helvetica, costumi che sembrano usciti da un armadio di scena vintage, e dialoghi recitati con la consueta freddezza stilizzata. Ma a differenza delle sue opere migliori, dove la forma era attraversata da un sentimento vero, qui la macchina è talmente perfetta da essersi dimenticata perché è stata costruita.
Tutto questo è orchestrato con la solita perizia artigianale, ma La Trama Fenicia appare presto come un contenitore senza contenuto. Il legame tra Korda e Liesl, che dovrebbe essere il cuore emotivo del film, è trattato come un problema logistico: un segmento da attraversare, non un conflitto da abitare. La redenzione del protagonista è appesa a cinque visioni post-mortem girate in bianco e nero — magnifiche da vedere, ma prive di peso — in cui Dio (Bill Murray, chi altrimenti?) si limita a osservare, più che a giudicare.
È proprio questo il problema: in un film che parla di redenzione, colpa, eredità e memoria, nessuno sembra realmente coinvolto. Né i personaggi, né l’autore. Zsa Zsa Korda è più una silhouette che una figura: somiglia a Royal Tenenbaum, ma senza lo struggimento; a Steve Zissou, ma senza la malinconia. Del Toro fa del suo meglio per riempire il vuoto con gravitas, ma l’arco narrativo è talmente esile da risultare trasparente.
Intorno a lui, una teoria di maschere fastidiose: fratellastri barbari, principesse indecise, investitori riluttanti, terroristi con l’agenda estetica. Tutti parlano nello stesso modo: velocemente, piattamente, guardando dritto in camera. È un effetto straniante che, film dopo film, ha perso ogni mistero: è diventato gesto, non linguaggio. E in un’opera dove ogni personaggio è un ingranaggio e ogni scena una miniatura, la ripetizione diventa stanchezza.
La satira politica è suggerita, ma subito smorzata nel surreale. Si parla di sfruttamento, schiavitù, carestia, colonialismo: ma solo come tappezzeria. Ogni questione morale è assorbita dallo stile, come se la forma potesse assolvere tutto. E così, La Trama Fenicia non è una condanna del potere, né un’ode all’umanità: è una favola tecnocratica che si finge commedia.
Il vero dramma è così fuori campo. Anderson sembra replicare se stesso fino allo sfinimento, come un artista che dipinge infinite variazioni dello stesso quadro senza mai osare cambiare soggetto. E se una volta lo faceva con complicità e malinconia — quando c’era ancora Owen Wilson a co-scrivere — ora lo fa da solo, intrappolato nel labirinto del proprio stile. L’autore non ha smesso di essere sé stesso: ha smesso di mettersi in discussione.
Sì, ci sono momenti riusciti. Il piano-sequenza iniziale con l’aereo, alcune invenzioni visive, la scena del bagno-museo con bidet pieno di Champagne. Ma sono fuochi fatui in un deserto narrativo. Un’estetica al massimo della sua precisione, ma al minimo della sua urgenza.
Nel film, un personaggio dice a Korda: “Questo piano è folle.” E lui risponde: “Se funziona, è un miracolo.” La Trama Fenicia non funziona. E non c’è alcun miracolo. Solo l’eco vuota di un cinema che ha smesso di parlare al cuore, per parlarsi addosso.
Di seguito trovate il trailer doppiato in italiano di La Trama Fenicia, nei nostri cinema il 28 maggio: