Horror & Thriller

La valle dei sorrisi: la recensione del film di Paolo Strippoli

Michele Rondino è al centro di un'opera che esplora dolore, fede e dipendenza collettiva dall’illusione di sollievo

Remis si presenta come “Valle dei Sorrisi”, ma il suo ottimismo di facciata è un cerotto su una ferita collettiva mai rimarginata: un deragliamento che ha lasciato il paese spezzato. In questo spazio sospeso, La valle dei sorrisi di Paolo Strippoli costruisce un’allegoria perturbante sulla tentazione di cancellare il dolore.

La trama è semplice e insinuante: Sergio Rossetti (Michele Riondino), ex campione di judo divorato dal lutto, arriva come supplente di educazione fisica; scopre che il quindicenne Matteo (Giulio Feltri), ragazzo schivo con un tratto di albinismo, durante cerimonie settimanali abbraccia i compaesani e ne assorbe la sofferenza. Don Attilio (Roberto Citran) amministra il rito, il padre Mauro (Paolo Pierobon) lo organizza, la comunità paga una “offerta discreta” e riceve in cambio un sollievo immediato. Ricordi intatti, dolore spento. Apparente miracolo, autentica dipendenza.

L’idea forte del film sta nel rovesciare il rapporto tra guarigione e corruzione: l’abbraccio che consola diventa un meccanismo di rimozione, un narcotico morale che trasforma il lutto in merce simbolica. Remis sorride perché ha delegato a un adolescente il compito di portare il peso di tutti; e quando il peso non si dissolve, si accumula, si deforma, ritorna. Strippoli lavora sul confine fra reale e soprannaturale con intelligenza: la messa in scena integra l’innesto fantastico dentro una quotidianità credibile, fino a renderci plausibile l’ipotesi che un paese del genere possa esistere davvero dietro una curva mal segnalata. La dimensione religiosa, più che dogmatica, è antropologica: una comunità ferita inventa un culto della consolazione, con liturgia, cassa, calendario. La domanda non è se il prodigio sia “vero”, ma che cosa siamo disposti a sacrificare pur di non sentire.

Sergio è il nostro vettore etico, e Riondino gli dona una stanchezza vissuta, un’ironia secca che riaffiora proprio quando il dolore si attenua. La sua parabola è ambigua: riconosce l’efficacia dell’abbraccio, se ne nutre, ma comprende che quella sospensione del male corrode la responsabilità. In controluce si disegna un’altra linea drammatica: Matteo, venerato come un santo, resta un quindicenne solo, desiderante, fragile.

Il suo amore non corrisposto per un coetaneo aggressivo non è un inciso decorativo, ma il cuore vulnerabile dell’opera: gli abbracci pubblici che leniscono la comunità coesistono con un potere privato più oscuro, legato al corpo e al consenso, che apre a esiti inquietanti. L’orrore, qui, non è mostruoso perché spettacolare: è mostruoso perché nasce dall’uso del sollievo come strumento di controllo.

La regia articola questo discorso con un doppio respiro. Da un lato, il prologo folgorante e varie “doppie botte” di messa in scena impostano un ritmo in cui a ogni brivido segue un colpo più duro, come se il film volesse ricordarci che sotto la patina di serenità opera un meccanismo crudele. Dall’altro, la fotografia di Cristiano Di Nicola lavora per contrasti: interni lignei e rassicuranti, chiesa-sala comunitaria che pare una palestra rituale, esterni alpini nitidi come cartoline. La luce è tersa, ma la grandangolatura schiaccia gli spazi, rendendo il villaggio una teca. La scelta è coerente con il tema: Remis è bello da vedere, soffocante da abitare. Quando la storia accelera verso il finale, Strippoli preferisce corpi e folla alla computergrafica: il movimento collettivo sostituisce l’effetto speciale, il rito che si sfalda prende il posto del “mostro”.

Non tutto fila con la stessa precisione. L’accumulo di chiusure negli ultimi minuti rischia di saturare il discorso e di spostare l’attenzione dall’ambivalenza morale alla concitazione pura. Qualche passaggio resta più enunciato che indagato: il ruolo di Michela (Romana Maggiora Vergano), figura-ponte tra osteria, desiderio e rito, arriva tardi alla piena risonanza; alcune idee potentissime – la circolazione materiale del dolore, la comunità come organismo che espelle il sintomo – meriterebbero un respiro in più. Ma quando il film tiene il passo della sua intuizione centrale, trova una voce rara nell’horror italiano recente: invece di chiedere “che cosa ci spaventa?”, chiede “che cosa vogliamo non sentire?”. E la risposta non assolve nessuno.

Sul piano attoriale, Feltri è una rivelazione: fragile senza leziosità, inquietante senza posture, trattiene in volto la fatica di chi è venerato e usato. Pierobon piega il padre-manager a un grigiore convincente, Citran dà al sacerdote il peso di una mediazione che giustifica tutto in nome del bene. E proprio il “bene” è l’oggetto del film: se togliamo l’attrito del dolore, togliamo anche la possibilità di elaborarlo; se riduciamo il lutto a servizio, trasformiamo la memoria in dimenticanza organizzata.  La valle dei sorrisi afferma, con crudele chiarezza, che la sofferenza non è un residuo da smaltire, ma una condizione da attraversare. Spegnerla equivale a negare l’umano.

Insomma, La valle dei sorrisi di Paolo Strippoli è un horror italiano che usa il soprannaturale per interrogare il nostro rapporto con il lutto, la fede, il corpo e la comunità. Non punta a spaventi facili, ma a una lunga eco morale. Quando i sorrisi si stirano sulla pelle, e l’abbraccio diventa rito, resta una scelta scomoda: preferire un paese felice perché anestetizzato o accettare che il dolore, se non altro, ci tiene vivi. In quel bivio, il film trova il suo vero terrore.

Di seguito trovate il trailer di La valle dei sorrisi, nei nostri cinema dal 17 settembre:

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Published by
William Maga