Il regista, qui all'esordio dietro alla mdp, rivendica giustamente il diritto alla commedia, ma non ne assolve al dovere, realizzando un'opera che non fa ridere mai
Al contrario di quanto accade nei Tribunali, è bene che inizi a parlare la difesa. Sono infatti bastati l’annuncio dell’uscita di Lockdown all’italiana e la diffusione della locandina per scatenare qualche settimana fa una ridda di polemiche e insulti nei confronti del suo autore Enrico Vanzina.
Ancor prima di vederlo, i “professionisti dell’indignazione” gli hanno rinfacciato di aver voluto ironizzare e speculare su un tema delicato che ha provocato morte e dolore, con l’aggravante di averne cavato il solito film pecoreccio. A parte il fatto che quest’ultimo concetto andrebbe sfatato una volta per tutte, perché i Vanzina di film volgari non ne hanno mai fatti: alcuni sono venuti bene e altri male, ma anche nei casi peggiori con loro ci si è arrestati un passo prima del burrone del cattivo gusto.
Vi sarebbe abbastanza materiale per aprire una riflessione sulla relazione tra questa mentalità e lo scadimento della nostra commedia, oggi priva non solo del talento dei Monicelli e dei Risi, ma soprattutto del loro coraggio. Bisogna peraltro aggiungere che la presenza del virus, oltre alle implicazioni sanitarie, sta indubbiamente condizionando le nostre vite sotto molti altri aspetti e non vi è nulla di sconveniente nel descrivere quelli meno drammatici con il sorriso sulle labbra.
Ma ora che, nel nostro piccolo, abbiamo riconosciuto a Enrico Vanzina il diritto alla commedia, ci tocca accusarlo di non averne assolto in questa occasione al dovere: quello di far ridere.
La sua storia di due coppie di coniugi, una alto-borghese l’altra proletaria, costrette dalla clausura a condividere lo stesso tetto pur non sopportandosi più non offre mai un momento di divertimento ed è assai povera di spunti. Era intelligente quello di partenza, anche se già visto: senza aver bisogno di uno sconquasso nazionale lo aveva sfruttato Riccardo Pazzaglia nel 1986 nel suo Separati in casa, sviluppandolo in una serie di gustose trovate e dando addirittura vita con il titolo a un’espressione rimasta poi immortale. Per Pazzaglia si trattò dell’ultimo dei pochi film diretti, al contrario di Enrico Vanzina che è al primo dietro la macchina da presa, fino a oggi regno esclusivo di suo fratello Carlo.
Difficile però che l’inesperienza in materia possa valere come giustificazione per i difetti di Lockdown all’italiana: gli aspetti tecnici della regia non possono aver costituito un problema per un veterano del set e della commedia quale è Enrico, e soprattutto i guai veri si annidano proprio sul terreno di cui è più pratico, cioè nella debolezza dei dialoghi e nella sceneggiatura scadente e stantia. Sembra quasi che prevedendo egli stesso le polemiche, nel timore di subirne troppe abbia voluto usare toni non del tutto comici, finendo addirittura per scivolare qua e là nel retorico e nel didascalico (il pistolotto di Ezio Greggio in terrazza, le paure manifestate da Richy Memphis e Riccardo Rossi).
Iniziano così due convivenze impossibili e svariati tentativi di diversivi per ciascuno, secondo il più banale catalogo di quanto realmente capitato a tutti gl’italiani nel periodo tra marzo e maggio: pretesti per uscire, smart-working vestendosi solo dalla cintola in su, rapporti virtuali, letture solo per mancanza d’alternative, indugio sui piaceri della tavola. Soprattutto noia, anche per lo spettatore.
La coppia alto-borghese è costruita sul modello Vianello & Mondaini, però cafoni, con lui a prodigarsi nella speranza di conquistare la procace vicina e lei a trastullarsi in chiacchiere e incombenze da ricca signora. Ma il confronto con gli originali è improponibile e si rimpiangono immediatamente la classe e l’ironia di Raimondo così come le buffe bizze di Sandra.
Il versante proletario di Lockdown all’italiana funziona un po’ meglio, soprattutto dal lato di Martina Stella, che è perfettamente nella parte. Cosa che non si può dire degli altri tre attori, nonostante la loro indubbia simpatia. Lo sarebbe Greggio, se non apparisse imbolsito e poco convinto lui per primo del film; non sfigura Paola Minaccioni, ma ha una recitazione troppo carica che sfocia talora in macchietta; Ricky Memphis è un ottimo caratterista, ma offre il suo meglio quando può sfoderare la sua romanità indolente e scanzonata, mentre qui è costretto ad alcune scene quasi strappalacrime fuori dalle sue corde.
Curioso per esempio che uno di essi, Alberto Sordi, unisca le due anime del film: l’avvocato cita la sua battuta sul fatto che prender moglie equivale a mettersi un’estranea in casa; il tassista si diverte a guardarlo nello sketch capolavoro del funerale del comico di avanspettacolo (“Elogio funebre”) tratta da I nuovi mostri. Quell’episodio fu girato da Ettore Scola, così come La Terrazza, una scena del quale, con Vittorio Gassman, viene anch’essa riprodotta in questo film.
Non sono gli unici riferimenti ai grandi maestri di quest’arte: anche se s’intravvede appena, il libro che Ezio Greggio a un certo punto legge è Forte respiro rapido, con il quale Marco Risi ha di recente raccontato il suo rapporto con il padre Dino. C’è spazio anche per un’ultima citazione, più struggente e personale, come a voler orgogliosamente rivendicare l’appartenenza degli stessi Fratelli Vanzina a quel pantheon.
Martina Stella si commuove guardando la scena finale di Sapore di Mare, la più romantica di tutta la loro filmografia: gli sguardi tra Jerry Calà e Marina Suma alla Capannina, le note di Riccardo Cocciante. Pessima idea però: in questo modo anche noi veniamo investiti dalla stessa ‘Celeste nostalgia’ per il loro film indimenticabile e capiamo ancor meglio quanto presto scorderemo Lockdown all’italiana.
Di seguito il trailer ufficiale di Lockdown all’italiana, nei cinema dal 15 ottobre: