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Intervista esclusiva a Mary Harron: “Davvero pensate che Patrick Bateman sia cool?”

23/10/2025 news di Alessandro Gamma

La regista di American Psycho riflette sull’ambiguità tra satira e orrore, sul fraintendimento dei suoi personaggi e sul fascino oscuro della violenza nel cinema

mary harron sitges 2025

Mary Harron, regista e sceneggiatrice canadese, è tra le voci più originali del cinema contemporaneo. Dopo l’esordio con Ho sparato a Andy Warhol (1996), ha firmato il cult American Psycho (2000), divenuto un punto di riferimento per la satira nera e la rappresentazione della violenza nel capitalismo.

Appassionata di generi e autrice versatile, ha esplorato il thriller e l’horror in The Moth Diaries (2011) e Charlie Says (2018), oltre a dirigere episodi di serie come Six Feet Under, Constantine e Alias Grace. Ospite del Festival di Sitges 2025 come membro di giuria, Harron ci parla del suo percorso, del rapporto tra empatia e violenza, e del suo prossimo film, The Highway That Eats People.

In American Psycho, il tono oscilla tra la satira e l’orrore. Pensa che oggi il pubblico sia più attrezzato per comprendere questa ambiguità rispetto a quando l’ha realizzato?

Sì, penso di sì. Voglio dire, credo che questo brusco cambiamento di tono sia qualcosa che è già presente nel libro, ed è proprio uno degli aspetti che mi piacevano. Trovavo interessante che ci fossero momenti di commedia pura, scene divertenti, e poi, senza alcuna spiegazione, si passasse improvvisamente a una scena di violenza estrema. Mi sembrava affascinante. Questi cambi di tono tengono il pubblico in uno stato di instabilità, e questo è interessante. Ma sì, penso che oggi il pubblico sia forse più preparato a questo.

E perché lo pensa?

Non lo so. Forse perché ci sono stati più film che mescolano i generi… Anche se, in realtà, l’horror ha sempre avuto elementi comici, no? Credo di sì. Non ne sono del tutto sicura.

mary harron set film american psycho 1E come affronta i momenti in cui il pubblico interpreta un suo film in modo esattamente opposto a quello che intendeva?

Il film è molto popolare tra le persone di Wall Street, e questo mi sorprende. Puoi solo raccontare la tua storia nel modo migliore possibile. Non puoi controllare come il pubblico la percepisce.

E le dà fastidio?

Mi sembra strano che forse non colgano la battuta, che la gente pensi che Patrick sia “figo”. Forse perché è ricco, affascinante, ha un grande appartamento, e la gente si concentra su questi aspetti. È come dire: “Davvero? Non vedete l’altro lato?”. Ma forse no.

Hai scelto Christian Bale per interpretare Bateman perché come attore sapeva riconoscere l’assurdità e mantenere la giusta distanza dal personaggio

Sì, ed è anche un grande attore. Sapevo che sarebbe riuscito a gestire sia la parte comica che quella più profonda. Ha molta profondità come interprete, qualcosa di misterioso in lui, e questo è un bene.

Era la sua unica scelta?

Penso di sì.

E crede ancora che sia stato la scelta migliore?

Sì, credo di sì.

Quando rappresenta figure controverse come Valerie Solanas, Grace Marks o Patrick Bateman, come decide quanta empatia offrire al pubblico verso persone che fanno del male?

Dipende tutto dalla storia. Con Grace Marks, c’è davvero un mistero al centro: ha ucciso quelle persone? Ha aiutato a ucciderle? E se sì, cosa l’ha spinta a farlo? Lo scopo di quel film era molto più quello di concentrarsi sulla sua vita e sulle sue circostanze, mostrare che in un certo senso era intrappolata e come fosse arrivata a quel punto – cosa che, secondo me, nel romanzo Margaret Atwood ha reso benissimo. Inoltre erano sei episodi dedicati a esplorare quel mistero. Ma mi è piaciuto molto lavorarci. È stato un grande progetto.

Quando ha girato Charlie Says, ha detto di voler evitare il “mito di Manson” e concentrarsi sulle donne coinvolte

Sì.

mary harron set film american psychoPensa che il mito del criminale finisca inevitabilmente per oscurare le vittime nelle storie che li riguardano?

Sì. Cioè, sì, succede. Perché vuoi rendere le vittime il più reali possibile e vuoi che gli omicidi risultino sconvolgenti. E penso che, in un certo senso, Charlie Says sia un film disturbante. Anche perché si vedono le vittime: si vede Sharon Tate e si vede la coppia innocente che uccidono alla fine – persone comuni. Ma volevo anche mostrare come una ragazza ordinaria come Leslie (interpretata da Hannah Murray) possa cadere in una situazione del genere: è un po’ smarrita, si lascia trascinare, e passo dopo passo perde la propria volontà, consegnandola a una figura dominante, Charlie.

E non vuole lasciare il gruppo, capisci? Potrebbe andarsene, ma non lo fa. E poi compie – come tutti loro – azioni terribili. Volevo solo seguire quel processo. Per me era molto importante, anche se non sono comode. Perché penso che la gente sia più a suo agio guardando qualcosa di “seriale”, capisci? In un certo senso, American Psycho è molto divertente perché non ti immedesimi davvero in Patrick, puoi guardarlo con un certo distacco. Invece Charlie Says è più scomodo perché ti coinvolge emotivamente. Ecco perché è, diciamo, ambiguo.

E poi loro – le ragazze – sono sia vittime che colpevoli …

Sì, entrambe le cose. All’inizio il film ebbe una reazione piuttosto ostile, e ora viene accolto un po’ meglio, il che è positivo. Ma anche American Psycho ebbe una reazione ostile all’inizio. Ci vuole tempo.

Ha diretto storie di true crime ma anche allegoriche. Charlie Says è true crime, American Psycho è allegorico. Come cambia il suo senso di responsabilità morale quando rappresenta la verità rispetto alla finzione?

È più complesso, certo, perché devi tenere conto dei fatti storici. E sai, io provengo dal documentario, quindi mi baso molto sui fatti, sulla ricerca. Ma, d’altra parte, anche così… hai meno libertà, in un certo senso, nel true crime. Però è curioso: Alias Grace è true crime – solo che è un true crime dell’Ottocento. In una storia reale c’è sempre un mistero che non potrai mai risolvere del tutto, capisci? Ma anche in American Psycho, penso che ci sia un mistero: è tutto reale? Non lo so. Io non ho scritto il libro. Non credo che nemmeno Bret lo sappia. C’è sempre un mistero, anche nella finzione.

Nel corso della sua carriera, c’è una chiara fascinazione per figure marginali, ambigue e persino disprezzate. Pensa che il vero filo conduttore dei tuoi film sia la trasformazione dell’empatia, o la sua graduale perdita?

È buffo, un mio amico una volta mi disse che tutti i miei film iniziano con un personaggio femminile che ami davvero e con cui ti senti coinvolto, e poi lei fa qualcosa che ti spiazza. Ed è vero. Non so perché. Psicologicamente, non so spiegartelo. È molto vero per Alias Grace, ma anche per gli altri. Non so perché. Non ho una risposta.

Sappiamo della sua fascinazione per le storie di true crime, ma per il fantastico o altri generi? E come spettatrice, come persona che va al cinema, cosa le piace guardare? C’è un genere in particolare?

Penso che, siccome American Psycho ebbe un tale successo, probabilmente la gente abbia iniziato ad associare il mio nome alla violenza. Ma in realtà, prima di fare film, quando lavoravo alla BBC, ero conosciuta molto di più per la commedia, per cose di tipo satirico. E mi piacerebbe molto tornare a quello. Credo che ci sia sempre della comicità in tutti i miei film. Amo film che però non vorrei mai fare io stessa. Per esempio, mi diverto a guardare The Furious, ma non farei mai un film del genere. È divertentissimo. È folle. Posso godermi un film così, pur non volendone realizzare uno simile. Ma mi piacciono i film poetici, indipendenti. Mi piace il cinema di tutto il mondo.

mary harron sul setHa una lunga carriera alle spalle ormai. Come reagisce ai cambiamenti dell’industria?

È molto difficile. C’è stato un periodo in cui si poteva lavorare in televisione, nella cosiddetta “TV di prestigio”. Era divertente – Six Feet Under, Big Love o cose del genere. Ma ora è tutto molto incerto, soprattutto per quanto riguarda i finanziamenti. Penso che al momento tutti siano un po’ confusi. È un periodo instabile. Per fortuna ho imparato a girare film con pochissimi soldi. Quindi sto cercando di realizzare il nuovo con meno di 3 milioni di dollari. Serve una storia che si possa raccontare bene in quel contesto. Non è mai stato facile, ma credo che lo streaming abbia in parte ucciso molto del cinema. Ora stiamo cercando nuovi modi per fare film in questo ambiente.

E per quanto riguarda l’intelligenza artificiale?

Penso che l’AI abbia molti usi utili – nella ricerca medica, per esempio, e in altri campi. Io non faccio film con molti effetti speciali, quindi non mi riguarda direttamente in modo significativo. Ovviamente non abbiamo idea di quanto grandi saranno i cambiamenti. È come con i telefoni: sapevamo davvero che saremmo diventati tutti dipendenti dal nostro telefonino? Non lo sapevamo.

Quindi è preoccupata?

Un po’, sì. Ma non so davvero come ci influenzerà. Al momento non ha un grande impatto sul mio lavoro. Il film che sto progettando non è qualcosa che richieda molti effetti speciali.

Quindi il suo nuovo film – The Highway That Eats People – è qualcosa che voleva fare da molto tempo?

Sì, da tanto. In origine doveva essere un cortometraggio. Era basato su un romanzo sperimentale che qualcuno mi aveva inviato. È più come una specie di favola oscura. È un road movie su un gruppo di adolescenti in viaggio, e su una ragazza che cerca la sorella scomparsa. C’è anche un elemento da serial killer, ma non è post-apocalittico. Sono ragazzi che vivono nei boschi e lungo le autostrade. E poi finiscono in una comune utopica dove le cose vanno storte.

Quindi parla del futuro?

Diciamo che è ambientato in un futuro prossimo – o quasi. Riguarda questo momento di ansia, una sorta di ansia esistenziale collettiva. Spero che tu riesca a vederlo! Volevo solo dirti grazie, per avermi fatto domande su film diversi.

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