Horror & Thriller

OPUS – Venera la tua stella: la recensione del film sugli orrori del music business di Mark Anthony Green

Una satira sui culti pop che imita lo stile A24, ma risulta confusa e senza anima

Prima di esordire dietro la macchina da presa, Mark Anthony Green era redattore di GQ Magazine. Conosce quindi bene il mondo del giornalismo della celebrità e dei sontuosi press tour, ed è proprio in quel contesto che ambienta OPUS – Venera la tua stella, il suo primo film da regista: un’opera che aspira a essere una satira cinica sui culti della personalità, ma che finisce per perdersi in un collage confuso di suggestioni già viste.

La protagonista è Ayo Edebiri, nei panni di Ariel Ecton, giovane giornalista musicale che si ritrova inaspettatamente invitata al rifugio segreto della leggendaria popstar Moretti (interpretato da John Malkovich), recentemente riapparso dopo un lungo ritiro per presentare a pochi selezionati membri della stampa il suo nuovo album — l’evento più esclusivo del pianeta.

Appena arrivata alla comunità isolata, Ariel capisce che nulla è come si aspettava. Certo, si aspettava forse le frecciatine del suo capo, ma non i seguaci in uniforme, le rigide regole su stile e comportamento, i bizzarri rituali alimentari e soprattutto la sorveglianza costante. Elementi che trasformano l’ambiente in una specie di setta musicale, tra culto della celebrità e isolamento paranoico.

Chiunque abbia visto un film prodotto dalla A24 — casa di produzione di Opus — riconoscerà immediatamente il tono: sembra un compendio autoconsapevole dei successi A24, o persino una parodia di un “film A24”. La trama riprende in modo evidente quella di Midsommar di Ari Aster, ma trasportata nel mondo del giornalismo musicale.

C’è una vena di assurdità metanarrativa che richiama Problemista o Everything Everywhere All At Once, mentre l’ensemble “alla moda” del cast appare selezionato con precisione da algoritmo. Le derive horror e grottesche rimandano alla trilogia di X, altro successo del catalogo A24.

Ma tutto questo si traduce in una massa disorganica e impersonale di elementi trendy: culto, body horror, cast premiati, e vaghi commenti sociali. Il film sembra una formula matematica costruita per intercettare lo zeitgeist, ma senza alcuna coerenza o reale profondità. Nulla si incastra davvero, compreso il resto del cast, in cui figurano Juliette Lewis, Stephanie Suganami, Melissa Chambers e Mark Sivertsen, con Murray Bartlett nel ruolo del capo paternalistico e manipolatore.

La Edebiri funziona bene nel ruolo della testimone lucida in mezzo al caos, il personaggio più vicino a uno spettatore smarrito tra fanatismo e narcisismo mediatico. Moretti, interpretato da un sorprendente Malkovich che mescola Elton John, Prince e David Bowie, è affascinante quanto bizzarro, e i brani del suo album (scritti da Nile Rodgers e The-Dream) sono effettivamente orecchiabili. Questi restano, però, gli unici punti luminosi in un prodotto che somiglia a una sorta di Mad Libs delirante.

La fotografia coloratissima di Tommy Maddox-Upshaw è pulita e curata, mentre il montaggio di Ernie Gilbert appare disconnesso, come se lottasse con forze esterne al film stesso: transizioni strane, personaggi quasi cancellati, collegamenti narrativi mancanti. Il risultato è un’esperienza frammentata, che fatica a trovare un’identità.

Le falle nella sceneggiatura sono numerose: buchi di trama, espedienti narrativi forzati, colpi di scena progettati per scioccare ma che lasciano solo frustrazione. I personaggi sembrano maschere, non esseri umani. Nessuno di loro sembra scritto con sincerità: sono archetipi senz’anima, solo strumenti per un discorso sarcastico e vuoto.

Ariel, pur essendo il personaggio più sviluppato, ha un arco narrativo superficiale e ridotto a una funzione reattiva. È evidente che Green voglia provocare con una punta di cinismo intellettuale — ma senza dire nulla di concreto.

Idolatria e tribalismo”, ha dichiarato Green nel presentare il film a Los Angeles. Temi importanti e attualissimi, soprattutto nel mondo della musica e della politica contemporanea. Peccato che Opus non dica nulla di reale su questi temi, limitandosi a suggerirli con dialoghi vuoti, scene gratuite e body horror fine a sé stesso.

L’epilogo, un twist finale straniante, sembra voler ribaltare il senso del film, ma in realtà getta Ariel sotto il bus senza motivo narrativo chiaro, confermando l’impressione generale: Opus è una provocazione sterile, costruita su stilemi già consumati, senza né cuore né visione.

Di seguito trovate il trailer di OPUS – Venera la tua stella, nelle nostri cinema dal 27 marzo:

Share
Published by
Gioia Majuna