Dan Trachtenberg ridefinisce il mondo dei Predator con sangue, onore e spettacolo, attraverso tre epoche e una battaglia finale
Con Predator: Killer of Killers, Dan Trachtenberg compie un’operazione tanto radicale quanto perfettamente logica: trasforma una saga d’azione in una mitologia animata, capace di attraversare i secoli mantenendo intatto il suo cuore pulsante di violenza rituale e spettacolo. Il film, costruito come un’antologia in tre atti e un epilogo, non è un semplice esperimento narrativo, ma una vera e propria dichiarazione d’intenti: il Predator è ovunque, in ogni tempo, ogni cultura, ogni mito del combattente.
L’idea, in sé, è semplice quanto potente. Ogni episodio presenta un’epoca, un contesto e un guerriero emblematico: una shield-maiden vichinga nel IX secolo, due fratelli giapponesi nel periodo Edo, un meccanico pilota nella seconda guerra mondiale. Tre archetipi di “uomo d’azione”, declinati però attraverso culture, codici morali e stili di lotta radicalmente diversi. A interrompere ogni loro percorso umano—fatto di vendetta, rivalità, o desiderio di riscatto—arriva il Predator, figura aliena ma perfettamente integrata nel sistema simbolico che va a invadere.
La regia di Trachtenberg, coadiuvato da Joshua Wassung e dalla visualizzazione ibrida del team di animazione, rifiuta il realismo per abbracciare una grammatica visiva che fonde graphic novel, videogame e stilizzazione epica. L’animazione non è solo una scelta tecnica, ma una dichiarazione di poetica. Le sequenze di combattimento, che cambiano registro e ritmo a seconda del contesto culturale, esprimono una precisa volontà di astrazione: la battaglia non è solo fisica, è coreografia simbolica, quasi liturgica. I Predator non uccidono: celebrano un duello che è parte di un culto alieno, eppure stranamente familiare.
Eppure non tutto si riduce a estetica. Killer of Killers è attraversato da un confronto sotterraneo tra ideali di guerra. Ursa combatte per vendicare il padre, ma perde il figlio. I fratelli giapponesi si distruggono a vicenda finché non imparano a combattere insieme. Torres, il più inesperto, sopravvive solo perché sa adattarsi, improvvisare, immaginare. In ciascun caso, il Predator seleziona non il più forte, ma il più capace di incarnare una forma estrema di tenacia. Questa logica darwiniana, al limite del sadismo, diventa la regola implicita dell’universo narrativo.
Il quarto segmento, ambientato sul pianeta dei Predator, svela la posta in gioco con chiarezza brutale: la caccia non è casuale, ma ritualizzata. I sopravvissuti delle tre epoche vengono trascinati in un’arena aliena, come gladiatori per un pubblico che celebra la morte come forma di spettacolo e selezione. È qui che il film abbandona ogni illusione di singolarità e si svela come parabola collettiva: ogni eroe umano, da qualunque cultura provenga, è solo un tassello in un sistema più ampio e crudele.
Ciò che rende il film più di un esercizio di stile è la sua coerenza interna: ogni parte è diversa, ma parla la stessa lingua. Ogni scontro è diverso, ma alimenta lo stesso racconto: quello di una specie che cerca in ogni epoca i propri “killer of killers”, per misurarsi contro di loro, e forse per distruggersi a vicenda. Il vero nemico, come sempre, è l’illusione della superiorità.
Insomma, Predator: Killer of Killers non è solo una variazione sul tema della caccia, ma una sua espansione mitologica, visiva e concettuale. Con questo film, il franchise ritrova una direzione chiara: smettere di rincorrere la nostalgia del primo film, e cominciare a costruire un universo più ricco, stratificato e tematicamente coerente. L’antologia si rivela così non come un intermezzo, ma come una summa: della violenza come linguaggio, della guerra come mito, e del Predator come archetipo di un’umanità in lotta con sé stessa.
Di seguito trovate il full trailer doppiato in italiano di Predator: Killer of Killers, dal 6 giugno su Disney+: