Horror & Thriller

Quicksand (2023): la recensione del survival thriller fangoso di Andrés Beltrán

Il regista firma un visivamente concreto ma narrativamente fragile, più interessante come metafora che come horror

Quicksand di Andrés Beltrán, scritto da Matt Pitts e interpretato da Carolina Gaitán e Allan Hawco, è un survival thriller a basso budget che costruisce la propria identità su un’idea tanto semplice quanto ambiziosa: trasformare una coppia sull’orlo del divorzio in prigioniera di una palude colombiana, obbligandola a confrontarsi con la natura ostile e con la propria frattura emotiva.

Ma l’originalità del presupposto non basta se l’assetto narrativo resta esile. Da un lato abbiamo la concretezza tattile dell’ambientazione, la fisicità vischiosa del fango che immobilizza i corpi e rende palpabile la fatica; dall’altro la tensione è però affidata a pochi eventi ripetuti – serpenti, formiche, minacce umane appena abbozzate – che raramente producono veri scarti drammatici. L’effetto è quindi quello di una messa in scena coerente sul piano sensoriale, ma povera di progressioni imprevedibili.

Uno degli elementi più interessanti è il rapporto tra verosimiglianza e mito. Il film prende le distanze dalla visione popolare delle sabbie mobili come trappola mortale che inghiotte fino alla scomparsa; un personaggio spiega esplicitamente che la densità del fango impedisce l’affondamento totale. È un dettaglio intelligente, persino educativo, che però introduce un paradosso: più si corregge l’idea spettacolare delle sabbie mobili, più la narrazione rischia di perdere energia.

Quicksand tenta di risolvere il problema spostando il baricentro sul conflitto di coppia, trasformando la palude in metafora matrimoniale. Quando l’azione rallenta, la storia fa emergere colpe, dipendenze, risentimenti e una tenue volontà di ricominciare. È qui che il film trova il suo valore: non tanto nell’accumulo di pericoli esterni, quanto nel modo in cui lo stallo fisico costringe i protagonisti a parlarsi e a riallineare le priorità.

Il problema è che questa scelta resta a metà. L’opera pretende la serietà del grande dramma di natura e insieme quella del percorso terapeutico, ma indulge in una retorica talvolta schematica. Alcune soluzioni appaiono didascaliche, come l’uso della colonna sonora per imporre lo stato d’animo o il ricorso a rivelazioni troppo comode (l’alcol nascosto, l’istinto materno proiettato sull’animale).

L’intenzione di conferire spessore simbolico alle prove della giungla è chiara, ma la scrittura ne limita la risonanza, perché ogni ostacolo viene introdotto e risolto in modo rapido e poco stratificato. Anche l’antefatto dei bracconieri, che dovrebbe ampliare il mondo e suggerire un pericolo laterale, rimane più funzione che universo: accende la miccia del racconto, poi scivola sullo sfondo senza vera esplorazione.

Sul piano della regia, Beltrán dimostra mestiere nella gestione dello spazio ristretto e nell’uso di elementi pratici: la consistenza del fango, i movimenti minimi dei corpi, lo sforzo muscolare comunicano concretezza. Ma alla lunga la messa in scena risulta monotona, come se il dispositivo visivo, pur efficace, non avesse un controcanto formale capace di sorprendere. Alcuni momenti cercano un’epica della resistenza, senza però riconoscere l’assurdo intrinseco della situazione; manca quell’autocoscienza che avrebbe potuto liberare un’ironia nera o un grottesco più consapevole. La durata contenuta (circa 85 minuti) evita l’estenuazione, ma non impedisce la sensazione che la vicenda sia stirata per raggiungere il formato del lungometraggio.

Gli interpreti sostengono con dignità questo equilibrio instabile. Carolina Gaitán lavora sul controllo e sulla rigidità iniziale, che si incrinano in un percorso di umanizzazione; Allan Hawco propone un controcampo più mansueto e empatico. La dinamica tra i due, però, a tratti manca di quella consistenza concreta che fa percepire le ferite di una storia condivisa: le loro posizioni sono delineate, ma l’evoluzione emotiva non sempre scaturisce organicamente dagli eventi. Quando il film funziona, è perché il fango diventa specchio: i protagonisti, immobili e costretti a guardarsi, trovano nel minimo gesto e nella parola misurata il varco verso un’intesa possibile. Quando non funziona, è perché il simbolo resta programma e non esperienza.

C’è poi la questione del contesto colombiano, che viene tratteggiato con tratti grossolani: parchi pericolosi, fauna velenosa, criminalità di passaggio, istituzioni distratte. È una scelta di genere – la giungla come luogo di minaccia archetipica – ma rischia di scivolare in stereotipo. Una maggiore cura nel disegno del territorio umano avrebbe dato profondità e respiro al racconto, evitando la sensazione che l’ambiente sia solo un pretesto. Al contrario, la fotografia e la resa materica del fango dimostrano che quando il film decide di “toccare” la realtà, la tensione cresce.

In definitiva, Quicksand è un’idea forte che cerca la sua forma: un thriller di sopravvivenza che vuole educare sul mito delle sabbie mobili, parlare di una coppia in crisi, denunciare il saccheggio della natura e, insieme, intrattenere. Riesce a metà in ciascuno di questi obiettivi.

È più interessante come esperimento di dramma immobilizzato che come corsa contro il tempo; più incisivo quando fa sentire la fatica del corpo che sprofonda di un palmo che quando impila minacce animali; più sincero quando ammette la fragilità dei protagonisti che quando forza allegorie o colpi di scena. Per chi cerca un racconto essenziale, fisico, concentrato sul volto e sul respiro dei personaggi, il film offre un’esperienza insolita.

Per chi desidera un percorso teso, stratificato e imprevedibile, resterà la sensazione di opportunità perdute. In ogni caso, Quicksand aggiunge una tessera curiosa al mosaico del thriller ambientato nella natura, ricordando che a volte il pericolo più grande non è sprofondare, ma restare fermi a guardare ciò che non volevamo più vedere.

Di seguito trovate il trailer di Quicksand:

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Published by
Marco Tedesco
Tags: recensione