Il remake del coreano Confessions of a Murder riesce a concretizzare in modo vivido un paradossale caso mediatico, sebbene si perda nel finale
Molteplici sono state nel cinema asiatico – nipponico in particolare – le declinazioni della detective story con al centro dell’indagine un serial killer, tratti da manga o con sceneggiature originali. Se si guarda al programma dei Festival del FEFF Udine e di Sitges del 2016, abbiamo immediatamente dei rappresentanti di tale tipologia: alcuni, come Museum di Keishi Ohtomo, hanno narrazioni più convenzionali e legami palesi con corrispettivi americani (quali Seven), altri, come Creepy di Kiyoshi Kurosawa, sono invece decisamente più singolari, anche se tutti condividono lo scontro tra un investigatore e uno psicopatico assassino, che pone in essere efferati delitti. In molti casi il canovaccio per questo tipo di film rischia di essere affetto da una certa ripetitività nello sviluppo, molto è già ormai stato mostrato e difficile è proporre qualcosa di nuovo e visionario, di stupire come face il visionario MPD Psycho (adattamento televisivo in sei episodi del 2000 dall’omonimo fumetto) ad opera di Takashi Miike.
Interessante, più di tutto è proprio la riflessione su un caso limite in cui la legge è incapace di punire un reo confesso solo perché dal suo crimine è passato un certo lasso di tempo. Si pone spontaneo il quesito: che giustizia può reggere la società se non v’è castigo perfino per l’omicidio? In assoluto, come in relazione alle vittime e ai loro cari, la giurisprudenza mostra allora le sue falle, le sue imperfezioni, dando il fianco a chi ne sa sfruttare le carenze. La critica non si limita a tale aspetto, il paradosso si fa ancor più acuto quando vengono riprodotte le reazioni dei mezzi di comunicazione, come del loro pubblico. Attratti dalla sete di sangue, ambedue cadono in questo circolo vizioso esibito sapientemente dal regista in uno sviluppo frammentario, in cui sono inserite riprese da reportage e interviste dal vivo in stile mockumentary, scritte in sovrimpressione e comparsate televisive dello scrittore/killer che danno una nota vivida al racconto.
Non altrettanto entusiasmante è invece l’indirizzo che viene conferito alla detective story, che cerca di destreggiarsi tra note patetiche, in particolare la violenta e oscura morte della sorella di Makimura, il continuo inseguimento tra il suddetto e l’omicida, tra presente e passato, tra televisivo e reale, in ultimo con un paio di colpi di scena un po’ troppo ad effetto e forzati (di cui è impossibile parlare senza ricadere in spoiler) che riguardano il killer stesso. Così a tre quarti del minutaggio viene abbandonata la via maestra e si fornisce una svolta certo inaspettata, che spiazza chi sta guardando, ma che al contempo fa perdere un po’ di mordente alla tensione finora costruita, aggiungendo un particolare ex abrupto e una componente lacrimevole che stridono con l’insieme molto più cinico. L’incastro narrativo regge comunque, almeno finché non si giunge all’epilogo davvero deludente, in cui le motivazioni e la psicologia dell’assassino risultano abbozzate e poco credibili.
Transigendo tuttavia sulle suddette imperfezioni e concentrandosi sulla vena più satirica, Memoirs of a Murderer ci propone differenti spunti riusciti, realizzando una disamina che indaga in maniera non banale e con disincanto sulle criticità dei media e della legislazione, applicabili al Giappone e non solo..
Di seguito potete trovare il trailer ufficiale: