Horror & Thriller

Highest 2 Lowest: la recensione del film ‘alla Kurosawa’ di Spike Lee (su Apple TV+)

Il regista rilegge Anatomia di un rapimento e getta Washington e Wright in un thriller urbano su riscatto, classe sociale e potere della musica

A quasi settant’anni, Spike Lee firma con Highest 2 Lowest il suo rifacimento più audace e, al tempo stesso, la sua autocritica più lucida: un’opera che parte dall’ossatura di “Alta e bassa” per interrogare il presente e la propria traiettoria artistica. Il punto di partenza è uguale e opposto: non più l’industriale delle calzature di Anatomia di un rapimento ma il re della musica nera, David King (Denzel Washington), che dall’attico con vista sulla città tenta di ricomprare il controllo dell’etichetta costruita in decenni di successi.

L’errore di persona che avvia il sequestro del figlio dell’autista Paul (Jeffrey Wright) al posto del suo, riprende il nodo morale originale e lo rovescia in un contesto in cui l’attenzione pubblica, i giudizi istantanei e il tracciamento satellitare alterano ogni scelta, etica e narrativa. Lee non copia: torna alla fonte per deviarla con decisione, e in quella deviazione trova il proprio centro.

La prima metà sembra apposta irrigidita, quasi a mettere in scena la tentazione del museo: ampie inquadrature che insistono sul feticismo del lusso domestico, partiture orchestrali che non smettono mai di coprire i dialoghi, una geometria classicheggiante che rischia di anestetizzare l’urgenza. È un prologo volutamente “alto”, distante, che espone il protagonista al giudizio dello spettatore e mette alla prova la pazienza.

Qui il confronto con Akira Kurosawa è programmatico: l’attico diventa torre d’avorio, la casa un reliquiario dove convivono memoria sportiva, arte, icone della cultura afroamericana. Ma sotto la superficie aleggia un’inquietudine contemporanea: il rancore di chi scruta dal basso gli abissi della disuguaglianza senza più dover alzare lo sguardo, perché basta lo schermo del telefono per sentirsi irrisi dalla fortuna altrui. Il dilemma non è soltanto “pagare o non pagare” il riscatto; è quale narrazione raccontare di sé quando la narrazione collettiva ti travolge.

Quando il film scende in strada, tutto cambia. La consegna del denaro in metropolitana è una delle sequenze più controllate della carriera di Lee: pulsazione musicale che sostituisce la partitura classica con energia urbana, montaggio che intreccia il viaggio sul convoglio, il flusso di tifosi diretti allo stadio, la festa di quartiere che esplode come un controcanto. La regia scarta il digitale levigato della prima parte per un grano più rabbioso; la fotografia di Matthew Libatique passa dall’adorazione degli spazi alla prossimità dei volti; la colonna sonora abbandona il tappeto onnipresente per far entrare ritmi che scuotono la scena dall’interno. Qui Lee ritrova il proprio passo, e con lui Washington: lo sguardo si stringe, la morale si complica, l’azione non è mai puro meccanismo ma forma della pressione sociale.

Il rapporto tra David e Paul è il vero cuore critico del film. Laddove l’originale lavorava sul solco di classe tra padrone e servo, qui la distanza si ridefinisce in una dipendenza economica che non cancella l’amicizia ma la contamina: “è solo denaro” è un’illusione che cade quando la vita di un figlio non tuo ti chiede la stessa misura di sacrificio che avresti dato a sangue del tuo sangue. Wright dà al personaggio un orgoglio ferito e una schiena dritta che impediscono al racconto di scivolare nel paternalismo; Washington trova un passo da campione esposto a un ring morale che non domina più come un tempo. In mezzo, la polizia incarna pregiudizi e disparità operative, e i media trasformano ogni fatto in etichette: l’attenzione diventa moneta, e la moneta decide chi è credibile e chi no.

Highest 2 Lowest non nasconde qualche spigolo. L’uso insistito della musica nella prima ora schiaccia talvolta le sfumature emotive; un dettaglio di plausibilità legato al tracciamento del denaro lascia per strada una piccola ombra; certi guizzi di messa in scena sembrano cercare la battuta più che la necessità. Ma ogni scelta formale dialoga con l’idea di fondo: l’aria rarefatta dell’attico è un preludio che deve soffocare per poi respirare; la città è un organismo che ti restituisce ciò che hai dato; la cultura popolare non è arredamento ma motore etico.

Quando la storia sfocia nella “sfida a colpi di rime” tra David e il giovane rapitore (A$AP Rocky, presenza magnetica), non è una strizzata d’occhio: è la traduzione in scena del conflitto tra generazioni, modelli di successo e desiderio di riscatto. Sulla carta potrebbe sembrare un azzardo; sullo schermo è l’azzardo che solo un regista con la sicurezza di Lee può permettersi, e che Washington trasforma in atto di padronanza del tempo e della parola.

Rispetto al cupo pessimismo sociale del modello, Lee sceglie un finale più caldo, quasi riconciliato. Si può discutere se questa virata attenui la ferocia dell’assunto o se, al contrario, lo aggiorni alla condizione di un’industria culturale dove ogni storia è un equilibrio tra impresa e comunità. È una scelta coerente con la sua maturità: ribadisce che il cinema popolare può osare senza rinunciare a parlare a un pubblico ampio, che il “genere” è un veicolo per rimettere in circolo domande di potere, identità, memoria. Qui la cinefilia non è gabbia ma trampolino; l’omaggio non è sottomissione ma dichiarazione d’amore e di differenza.

Insomma, il film di Spike Lee è un’opera che vive di tensioni: tra alto e basso, casa e strada, patrimonio e presente, privilegio e responsabilità, memoria e reinvenzione. Dove inciampa, lo fa perché rifiuta il passo medio; dove vola, ricorda perché il suo autore è uno dei pochi capaci di far convivere spettacolo e sguardo politico senza confondere l’uno con l’altro.

Denzel Washington aggiunge un capitolo nuovo alla sua collaborazione con Lee, più rugoso e consapevole, e Jeffrey Wright gli offre la resistenza morale che lo costringe a guardarsi allo specchio. In mezzo, la città diventa coro, la musica diventa giudice, il denaro torna a essere misura e menzogna. Non è un semplice aggiornamento: è un atto di fede nel cinema che scende dal piano alto per sporcarsi le mani, e, nel farlo, riscopre perché ci interessa ancora raccontare rapimenti, riscatti, cadute e ritorni.

Di seguito il trailer internazionale di Highest 2 Lowest,dal 5 settembre in esclusiva per Apple TV+:

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Published by
Marco Tedesco