Horror & Thriller

Honey Don’t!: la recensione del film noir di Ethan Coen

Margaret Qualley e Chris Evans sono al centro di un'opera a tinte queer esteticamente raffinata ma confusa

Honey Don’t! di Ethan Coen è un caso esemplare di come un progetto formalmente curato possa scivolare nell’insoddisfazione quando la regia affida alla superficie l’onere che spetterebbe alla drammaturgia. La confezione è seducente: i volti di Margaret Qualley, Aubrey Plaza, Chris Evans, Charlie Day e Talia Ryder; la fotografia di Ari Wegner che stende su Bakersfield un velo da cartolina scolorita; i costumi rétro di Peggy Schnitzer che definiscono i corpi come maschere; la colonna sonora di Carter Burwell che soffia un’aria da frontiera. Tutto promette un noir contemporaneo dal piglio ludico. Ma, una volta varcata la soglia dell’immagine, ci si ritrova in un dedalo che non porta da nessuna parte.

Coen e Tricia Cooke proseguono l’idea della loro “trilogia lesbica” inaugurata con Drive-Away Dolls: riportare al centro del genere corpi e desideri queer, trapiantando nel presente i codici del cinema popolare di un tempo. L’intento è nobile e, a tratti, divertito. La detective Honey O’Donahue (Qualley) – altezza, tacchi, spalle larghe e una sicurezza che taglia l’aria – entra nelle stanze come un contrappunto al cliché della femme fatale: è lei che guarda, che sceglie, che desidera. La relazione con MG (Plaza), tutta frizione, silenzi e attrazione a vista, introduce un gioco di ruoli interessante che ribalta l’iconografia del poliziesco. Le scene di sesso sono dirette senza pudori edulcoranti, e l’energia fisica fra le due attrici possiede un’efficacia immediata.

È quando il film dovrebbe addensarsi che comincia a sfilacciarsi. L’indagine su un incidente stradale sospetto, il reverendo carismatico e viscido interpretato da Chris Evans, la nipote di Honey invischiata in una relazione violenta, l’ombra di una chiesa-setta e persino un filone criminale d’oltremanica: i fili sono molti, il tempo è poco, la tessitura è fragile. Le battute ricorrenti – come il poliziotto interpretato da Charlie Day che finge di non capire l’orientamento di Honey – si ripetono fino a perdere smalto; il presunto pericolo al centro del racconto resta sempre un passo indietro rispetto agli ammiccamenti di tono.

Quando poi la storia tenta il colpo di scena sentimentale, il cambio di registro appare immotivato: non nasce da un percorso, ma da una strizzata d’occhio al pubblico. Il risultato è una giostra di numeri comici e scarti di trama dove ogni pista promette densità e la revoca un istante dopo.

Il confronto con Drive-Away Dolls aiuta a chiarire il cortocircuito. Là il viaggio on the road giustificava l’andamento a episodi: si partiva leggeri, si inciampava in imprevisti, si restava per la compagnia. Qui Ethan Coen persegue la compattezza del noir – indizi, piste, sospetti, rivelazioni – ma tratta la struttura come se bastasse l’aria di famiglia a tenerla insieme. Ne nasce un paradosso: l’attenzione maniacale per l’esteriorità di genere (inquadrature, luci, guardaroba, accenti) non trova un corrispettivo in una rete di motivazioni, conflitti e svolte che diano peso alle azioni.

Persino la figura del predicatore di Evans, pensata per attrarre e ripugnare, resta un cartello morale più che un personaggio; il suo percorso procede in parallelo a quello di Honey e quasi non lo incrocia, come se il film temesse la collisione che dovrebbe invece alimentarlo.

Se si allarga lo sguardo al passato dei Coen, si avverte un ulteriore scarto. Opere come Crocevia della morte o Il grande Lebowski tenevano insieme bizzarria e rigore attraverso un disegno musicale di dialoghi e immagini: ripetizioni ipnotiche, frasi-ritornello, gesti che tornano come temi. Honey Don’t! prova a suggerire quell’andamento – il dialetto dei personaggi, la provincia come teatro di maschere – ma non ne costruisce la partitura. La meccanicità di alcune situazioni (il poliziotto ottuso, la comparsa del parente che dovrebbe commuovere, la violenza improvvisa che spegne una pista) produce una frustrazione crescente, perché ogni promessa di senso è sostituita da una scorciatoia.

Il confronto più illuminante, però, è con Resurrection di Bi Gan, coetaneo festivaliero agli antipodi per stile e, insieme, sorprendentemente affine per ambizione intertestuale. Anche lì si cita e si rimescola il Novecento cinematografico; anche lì la forma è dichiaratamente artificiale. Ma Bi Gan usa il travestimento dei generi come un mezzo per raccontare l’ansia del vivere: la logica del sogno non cancella i sentimenti, li sublima. La mutevolezza dei formati, la danza della macchina da presa, la catena di storie incastonate costruiscono un’esperienza che, pur sfuggendo alla linearità, approda a una verità emotiva semplice: la fuga nell’immaginazione non è evasione sterile, è un modo di respirare. In Honey Don’t! l’operazione opposta – piegare il presente a un’icona del passato – resta spesso gesto citazionista. L’oggetto citato non diventa materia viva; l’ornamento non si trasforma in necessità.

Non tutto è comunque da archiviare. La Qualley porta in dote un carisma che riempie la scena e, quando il dialogo smette di compiacersi, le sue risposte tagliano come lame. La Plaza è una partner ideale nel dare corpo a un erotismo spigoloso, e Wegner e Schnitzer firmano un paesaggio visivo e sartoriale che meriterebbe un racconto all’altezza. Ma la Bakersfield del film, pur fotografata con grazia, resta un fondale: non se ne percepisce il tessuto sociale, non genera comportamenti, non modella i personaggi come accade nei migliori racconti criminali. Così il ritmo oscilla fra il compiaciuto e lo sbrigativo, e la conclusione – più ammicco che epifania – chiude il cerchio senza davvero stringerlo.

In sintesi, Honey Don’t! è una bella scatola con poco dentro: un noir contemporaneo che confonde stile e sostanza, un capitolo di trilogia che ribadisce l’intenzione ma non trova il passo, una “recensione vivente” di ciò che accade quando il gioco citazionista rimane gioco. Chi cerca un’analisi del desiderio femminile nel genere troverà spunti, chi desidera un mistero avvincente resterà a metà strada. Il paragone con Drive-Away Dolls mette in luce la regressione narrativa; quello con Resurrection mostra quanto la memoria del cinema possa farsi emozione invece che manierismo.

E allora il giudizio critico su Honey Don’t! si colloca qui: film godibile a tratti, curato nell’immagine, ma incapace di trasformare i suoi pregi in necessità drammaturgica. Per un autore come Ethan Coen, che ha saputo fare di ritmo, coerenza interna e ironia una cifra inconfondibile, è poco.

Di seguito trovate il trailer doppiato in italiano di Honey Don’t!, nei nostri cinema dal il 18 settembre:

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Published by
Marco Tedesco