Horror & Thriller

Dossier: i 50 anni de I Tre Giorni del Condor, il paranoid thriller con Robert Redford

Attore, regista, mecenate. Ricordiamo il divo recentemente scomparso attraverso il film di Sydney Pollack simbolo del cinema cospirativo anni ’70, capace di intrecciare intrattenimento e riflessione politica. Esempio di prodotto di genere raffinato, ma anche documento culturale che restituisce l’atmosfera di sfiducia e tensione del periodo

Cinematograficamente parlando, la notizia di questi giorni non può che essere la scomparsa del grande Robert Redford a 89 anni. Personaggio di spessore, incarnava un tipo di star inedita. Seducente ma al tempo stesso riflessivo, impegnato, mai riducibile al ruolo del semplice idolo. In lui convivevano il fascino del golden boy e l’etica coscienziale dell’intellettuale progressista.

Poche figure del cinema americano hanno saputo incarnare, con la stessa naturalezza, tanto l’aura del divo classico quanto la tensione morale di una mente pensante ed inquieta. Redford è uno di questi. Un artista capace di trasformarsi da attore magnetico a regista rigoroso, da sex symbol a icona dell’impegno civile e culturale. La sua parabola, lunga oltre sessant’anni, racconta molto non solo di Hollywood, ma anche dell’America stessa e delle sue trasformazioni.

Un divo controvoglia, verrebbe da definirlo. Alto, bello, biondo, occhi azzurri. Ma sempre in fuga da un’etichetta troppo stretta. Dietro quel volto da eroe americano si è nascosto fin dall’inizio un uomo inquieto, capace di spostarsi dalla ribalta di Hollywood al silenzio delle montagne dello Utah, dove avrebbe costruito un impero culturale alternativo. La fama gli è piombata addosso come un vestito troppo stretto, il pubblico lo ha subito consacrato a simbolo di fascino e bellezza. Lui, però, cercava altro.

Un percorso attoriale di spessore, la pittura, la regia, un impegno culturale che desse senso a quell’attenzione spesso superficiale che Hollywood gli riversava addosso. La sua storia è quella di un uomo che ha passato la vita a sgusciare via dall’etichetta del golden boy per diventare qualcosa di più complesso come un interprete del proprio tempo, un regista attento ed un mecenate capace di rivoluzionare il cinema indipendente americano.

Charles Robert Redford Jr. nasce nel 1936 a Santa Monica, in California, in una famiglia della working class lontano da agio e riflettori. Da ragazzo non era quello che si definirebbe uno studente modello, espulso dal liceo per ubriachezza, per un periodo si perse tra lavori saltuari e vagabondaggi. Sportivo eccellente in varie discipline, in particolare ottimo giocatore di baseball capace di ottenere una borsa di studio alla University of Colorado, persa a causa dell’alcol e di una disciplina troppo flebile.

La giovinezza è segnata quindi da un temperamento irrequieto e da un talento artistico che inizialmente prende la forma della pittura e del disegno, a metà anni Cinquanta studia arte al Pratt Institute di New York e successivamente a Parigi. È lì che capisce di avere un talento diverso, non solo il disegno ma la capacità di incarnare storie. Lui stesso ha raccontato che senza la pittura probabilmente non avrebbe trovato una direzione. Solo dopo, quasi per caso, si avvicina alla recitazione, frequentando l’American Academy of Dramatic Arts.

Il palcoscenico lo attrae, il teatro è la sua prima palestra e gli permette di affinare i tempi, curare la dizione e sviluppare la capacità di fornire sfumature psicologiche ai personaggi. L’apprendistato teatrale culmina col suo primo successo a Broadway nel 1963, quel Barefoot in the Park (A Piedi Nudi nel Parco) di Neil Simon che porterà anche al cinema nel 1967 per la regia di Gene Saks, opera in cui interpreta un giovane marito opposto alla moglie vivace (Jane Fonda) mettendo subito in mostra quell’energia contenuta che diventerà il suo marchio; il pubblico ride, lui conquista critica e produttori, ma già allora inizia a pesargli l’idea di essere ‘soltanto’ il marito perfetto della commedia romantica.

Prima di allora aveva avuto alcune esperienze televisive in serie come Perry Mason, Alfred Hitchcock Presents e The Twilight Zone (Ai Confini della realtà) e qualche capatina sul grande schermo. Non accreditato in Tall Story (In Punta di Piedi, 1960), il vero debutto arriva in War Hunt (Caccia di Guerra, 1962). E dire che quando arrivò nel mondo del cinema, Redford non era affatto convinto di piacere davanti alla macchina da presa. Si vedeva rigido, poco naturale.

La sicurezza, dicevamo, la trovò solo con il teatro e grazie a Neil Simon, che lo volle come protagonista. Negli anni sessanta inizia a collezionare ruoli significativi: Inside Daisy Clover (Lo Strano Mondo di Daisy Glover, 1965), accanto a Natalie Wood, lo impose come volto emergente; This Property Is Condemned (Questa Ragazza è per Tutti, 1966), ancora con la Wood e prima delle sette collaborazioni con Sidney Pollack, confermò il suo magnetismo. Ma fu Butch Cassidy and the Sundance Kid (1969), al fianco di Paul Newman e diretto da George Roy Hill, a consacrarlo definitivamente: l’alchimia tra i due attori, unita alla carismatica ambiguità del suo Sundance Kid, fece esplodere il mito Redford.

E pensare che all’inizio non era stato la prima scelta per il ruolo, fu Newman ad insistere per averlo, episodio che fece scattare un’intesa tra i due umana oltre che professionale, un’amicizia vera e duratura. Il suo volto divenne onnipresente sulle riviste, ma Robert odiava quell’attenzione e fece di tutto per mantenere la sua vita privata lontana dai riflettori, rifugiandosi nello Utah. Più volte ha dichiarato di sentirsi soffocato dall’immagine di ‘uomo più bello d’America’, diceva che non lo aiutava ad essere preso sul serio come attore o come regista, e che passò anni a cercare ruoli che rompessero quell’etichetta.

Negli anni settanta Redford era richiestissimo dalle riviste patinate, ma spesso rifiutava di posare perché non voleva alimentare troppo quel tipo di immagine. Una volta arrivò persino a chiedere che il suo nome non fosse messo in grande sulle locandine, preferendo che fosse il film a parlare. E’ sempre stato molto riservato, durante le interviste spesso si rifiutava di rispondere a domande personali e, non di rado, i colloqui finivano in modo brusco, tanto che alcuni cronisti lo descrivevano come un soggetto difficile da intervistare. Non ha mai amato firmare autografi, quando possibile preferiva parlare due minuti con i fan o stringere la mano, sosteneva che gli sembrava più autentico che lasciare una firma frettolosa su un pezzo di carta.

Anni settanta che diventano il suo decennio d’oro, protagonista di film che hanno segnato l’immaginario americano. Trapper solitario in Jeremiah Johnson (Corvo Rosso non avrai il mio Scalpo!, 1972), politico idealista in The Candidate (Il Candidato, 1972), partner romantico di Barbra Streisand in The Way We Were (Come Eravamo, 1973), truffatore in The Sting (La Stangata, 1973 – ancora con Newman, premiato con l’Oscar per il miglior film), sognatore tragico in The Great Gatsby (1974), fino a All the President’s Men (Tutti gli Uomini del Presidente, 1976), in cui prestava il volto al giornalista Bob Woodward, in un’opera che dà corpo al giornalismo d’inchiesta nel pieno della crisi di fiducia post-Watergate.

Non è più solo un attore: è un interprete del suo tempo, il volto di un’America che non può più permettersi l’innocenza. Come se ci fosse una costante in questi ruoli, sceglie personaggi che, pur muovendosi in contesti molto diversi, incarnano la tensione tra idealismo e disincanto. Sono uomini che vogliono cambiare le cose, ma che spesso si ritrovano schiacciati dal sistema. Una sorta di specchio della sua stessa immagine pubblica, divisa tra la bellezza da cartolina e il desiderio di fare un cinema che conti davvero.

Negli anni Ottanta, quando molte star della sua generazione si rifugiavano in ruoli di routine, Redford scelse di spostarsi dietro la macchina da presa, un cambio di rotta per non rischiare di intrappolarsi nel divismo. Nessuno si aspettava che un attore così popolare potesse dirigere un film così cupo e rigoroso, molti produttori lo sconsigliarono perché avrebbe rischiato di bruciare la sua carriera di attore. Invece fu il contrario con Ordinary People (Gente Comune 1980) vinse l’Oscar al miglior regista che lo consacrò come autore; un esordio folgorante, un dramma familiare che mostra la sua sensibilità per i conflitti intimi e per la fragilità emotiva, il suo essere un autore attento ai silenzi, alle fratture intime, alle ferite invisibili.

Non sarà un fuoco di paglia, la sua carriera da regista proseguì con titoli di grande impatto come The Milagro Beanfield War (1988), A River Runs Through It (In Mezzo Scorre il Fiume, 1992), Quiz Show (1994, candidato all’Oscar come miglior film), The Horse Whisperer (L’Uomo che Sussurrava ai Cavalli, 1998).

La sua regia è elegante, misurata, più interessata ai dilemmi morali e al paesaggio umano che agli effetti di superficie. È un autore che crede nella forza delle storie, dietro la macchina da presa Redford sviluppa un linguaggio sobrio, rispettoso degli attori e delle vicende raccontate, spesso legato a un’America periferica – mostrata con occhi critici e malinconici, ai dilemmi etici, alla memoria.

Sul versante attoriale, negli anni ottanta sceglie ruoli che gli permettono di esplorare sia la dimensione romantica che quella più avventurosa. Nel 1984 è protagonista, accanto a Meryl Streep, del kolossal romantico Out of Africa (La mia Africa) di Pollack, che vinse sette Oscar e consolidò l’immagine di Redford come icona di fascino e maturità; i due furono al centro di pettegolezzi insistenti su una presunta relazione, entrambi smentirono sempre ma la chimica sullo schermo rimane una delle più ricordate della sua carriera.

Lo stesso anno interpreta anche The Natural (Il Migliore, 1984), film sportivo in cui veste i panni del talentuoso giocatore di baseball Roy Hobbs, incarnando il mito dell’eroe americano caduto e risorto. Tra i ruoli significativi del periodo includerei Brubaker (1980), in cui denuncia la corruzione del sistema carcerario, e Havana (1990), thriller romantico ambientato a Cuba alla vigilia della rivoluzione castrista, che lo riunisce per l’ultima volta con Pollack ma non ottiene il successo sperato.

Negli anni novanta pur dedicandosi sempre più alla regia, Redford non abbandona del tutto la recitazione. Nel 1992 è in Sneakers (I Signori della Truffa) accanto ad un cast corale che include Sidney Poitier e Dan Aykroyd, un heist movie tecnologico che anticipa certe tematiche legate alla sorveglianza digitale. Nel 1993 interpreta Indecent Proposal (Proposta Indecente) di Adrian Lyne, dove forma con Demi Moore e Woody Harrelson un triangolo amoroso provocatorio che fece discutere e divenne uno dei titoli simbolo dell’epoca, nonostante le critiche contrastanti.

A fine decennio, sceglie ruoli più rari e misurati, coerenti con la sua immagine di attore maturo; nel 1998 è in La leggenda di Bagger Vance (da lui stesso diretto, ma con una breve apparizione) mentre nel 2001 tornerà poi davanti alla macchina da presa con The Last Castle (Il Castello), segno di una carriera attoriale che, pur più selettiva, non smette di proporre figure di autorità, padri spirituali o uomini carismatici, nell’anno in cui torna anche allo spionistico di Spy Game al fianco di Brad Pitt e sotto la direzione di Tony Scott.

Pur avendo annunciato più volte il ritiro, Redford non ha mai smesso davvero, continuando a recitare anche nel nuovo millennio, spaziando da ruoli più autoriali come in All Is Lost (2013), in cui sosteneva da solo l’intero film, a produzioni mainstream come il marvelliano Captain America: The Winter Soldier (2014), infilandoci il thriller politico di The Company You Keep (La Regola del Silenzio, 2012, di cui cura anche la regia), fino a quello che lui stesso ha indicato come suo canto del cigno, The Old Man & the Gun (2018) in cui si congeda con un sorriso scanzonato, quasi a chiudere il cerchio iniziato con Sundance Kid.

Parallelamente all’attività di attore e regista, Robert Redford ha sempre rivendicato un ruolo da intellettuale e attivista. Nel 1981 fonda il Sundance Institute, che nel giro di pochi anni divenne il cuore pulsante del cinema indipendente americano; un laboratorio creativo, un trampolino per registi e autori lontani dai meccanismi dell’industria hollywoodiana. Da qui nacque anche il Sundance Film Festival, che ancora oggi rappresenta una delle piattaforme fondamentali per il cinema alternativo e innovativo. L’origine del nome Sundance è chiaramente legata al suo ruolo più iconico, Redford scelse di battezzare così il suo ranch nello Utah e, in seguito, l’istituto ed il festival. Era un modo ironico per riappropriarsi di un’etichetta che gli era rimasta addosso.

Lo Utah non fu solo il luogo delle sue fondazioni, Redford vi si era trasferito molto prima cercando un posto lontano da Hollywood dove crescere i figli; lì aveva costruito il suo ranch e la comunità artistica che sarebbe appunto diventata quel Sundance Institute che insieme al Festival rappresenta un’idea semplice ma rivoluzionaria, dare spazio al cinema indipendente, a voci nuove e non allineate con l’industria.

In un’America cinematografica dominata dagli studios, Robert crea un rifugio per i registi indipendenti. Senza di lui, il cinema americano degli ultimi quarant’anni sarebbe stato molto più povero, basta pensare a quanti autori sono passati da lì, trovando una piattaforma che Hollywood non avrebbe mai offerto loro. Senza Sundance non ci sarebbero stati i fratelli Coen, Tarantino, Linklater, Paul Thomas Anderson, né la nuova ondata di cinema americano degli anni Novanta. Redford diventa così il mecenate silenzioso di un’intera generazione, più influente di molti dei suoi stessi film.

Il suo impegno non si è mai limitato al cinema. Redford è sempre stato un convinto ambientalista, una voce critica nei confronti delle politiche energetiche e un sostenitore dei diritti civili. Il suo volto pubblico, quindi, è sempre stato inscindibile dalla sua etica personale. Senza mai nascondere le sue posizioni politiche, non è un caso che per molti sia diventato un punto di riferimento etico oltre che artistico. Per lui il cinema è sempre stato anche un veicolo politico, uno specchio capace di interrogare la società. Una sensibilità artistica segnata anche dal dolore di tragedie personali come la perdita del primo figlio, Scott, nel 1959 a pochi mesi di vita per la sindrome della morte in culla, o quella di James, altro figlio morto nel 2020 dopo anni di malattia.

In ogni fase della carriera, Robert Redford è riuscito a mantenere una coerenza rara, non ha mai svenduto la propria immagine, non ha mai smesso di cercare un senso più profondo nel cinema, ha scelto con attenzione i progetti e ha sempre cercato di conciliare l’aspetto spettacolare con quello culturale. Oggi, guardando indietro, è impossibile ridurre Redford a un solo ruolo. È stato attore, regista, produttore, mecenate, attivista. È stato un’icona del cinema classico e insieme un simbolo del nuovo cinema indipendente. La sua eredità è duplice, da un lato l’immagine immortale del divo biondo e sorridente che scorrazzava con Newman; dall’altro il promotore del Sundance, colui che ha reso possibile la nascita di intere generazioni di registi alternativi.

Robert Redford resta, in definitiva, il volto di un’America che non smette di interrogarsi su sé stessa, divisa tra mito e coscienza critica. In un’epoca in cui i divi spesso si consumano in fretta, ha scelto un’altra strada: resistere, reinventarsi, lasciare un segno che va oltre i film. Forse è proprio questo che lo rendeva ancora oggi un punto di riferimento culturale imprescindibile, un ponte tra Hollywood e l’indipendenza, un divo che ha passato la vita a non voler essere divo, una mente (ed una personalità) capace di ridefinire cosa significa fare cinema in America.

Insomma, non si tratta solo di una carriera, ma di una vera e propria vita da raccontare. Di quelle che se ci dilunghiamo un pochino in più direi che ci può stare. Non celebriamo la scomparsa di un mito, ma la sua grandezza. E per farlo ci serviamo, come altre volte in questi casi, di uno dei suoi film più significativi (e amati). Un approfondimento che sostenga il tono (e l’intenzione) del nostro omaggio. Un’opera che riflette il fascino, la complessità e lo spirito di Robert Redford come Three Days of The Condor (I Tre Giorni del Condor) del 1975, nell’anno del suo cinquantesimo anniversario.

Un titolo che diventerà simbolo del cosiddetto paranoid thriller molto in voga negli anni Settanta, cinema cospirativo, sottogenere figlio delle tensioni politiche e sociali dell’America che si districava tra i postumi del Watergate e della guerra in Vietnam. È un film che, più di molti altri, fotografa alla perfezione il clima di paranoia del periodo, cattura l’atmosfera di diffidenza verso il potere e i servizi segreti, raccontando la storia di un uomo comune costretto a diventare protagonista (e bersaglio) di un complotto più grande di lui. La fiducia nel governo e nei servizi segreti che va in frantumi, il sospetto che la verità fosse sempre manipolata. Il dubbio centrale degli americani di quegli anni che non sapevano più fino a che punto potevano fidarsi (e affidarsi) delle istituzioni.

È la paranoia a dominare, non come eccesso patologico ma come stato mentale collettivo, conseguenza naturale di un’epoca in cui bugie, coperture e scandali dominavano la scena politica e sociale. Il finale stesso – lieto ma non lietissimo, con Turner che consegna le prove a un giornalista del New York Times, restando però incerto sul fatto che la notizia verrà pubblicata davvero – lascia volutamente un senso di inquietudine sospesa, l’assenza di una vera liberazione che ribadisce l’idea di un potere più grande dell’individuo.

Il film mescola azione e introspezione, senza mai indulgere nel ritmo da spy movie convenzionale, ciò che conta non è solo lo scontro fisico, ma il peso della conoscenza e della sfiducia. Una corsa disperata contro il tempo, alla ricerca di risposte affidandosi soltanto alla sua intelligenza.

La vicenda è tratta dal romanzo di James Grady, Six Days of the Condor (1974) che aveva colpito Hollywood per la sua attualità. Il progetto prende corpo quasi immediatamente dopo la sua pubblicazione, con la Paramount che è la prima ad acquistarne i diritti intravedendo la possibilità di inserirsi nella corrente del paranoid thriller di titoli come The Parallax View (Perché un Assassino) o The Conversation (La Conversazione) giusto per fare un paio di esempi del 1974. Paramount che spinse molto sul titolo ‘Condor’ per differenziarlo dagli altri thriller e creare un marchio immediatamente riconoscibile. E che inizialmente avrebbe insistere sull’elemento CIA nella campagna pubblicitaria, arrivando a proporre l’uso del sigillo ufficiale dell’agenzia nei poster, furono Pollack e Redford a dissuadere lo studio opponendosi per insistere nel concentrare la comunicazione sui personaggi e sull’atmosfera.

Tra l’altro, Grady – che sosteneva che l’adattamento cinematografico del suo libro spinse prima il KGB e poi la CIA a creare veri uffici simili a quello del film – scrisse anche un seguito nel 1978, Shadow of the Condor, mai adattato al cinema. Lo sviluppo iniziale viene affidato a Lorenzo Semple Jr. (già sceneggiatore della serie Batman, di Papillon e del sopracitato The Parallax View), poi rivisto e reso più cupo da David Rayfiel, collaboratore di fiducia di Sidney Pollack che nel frattempo era salito a bordo per dirigerlo.

La decisione di accorciare la vicenda riducendo l’arco narrativo da sei a tre giorni fu pensata per aumentare tensione e ritmo e rendere il film più incalzante. Lo script è così apprezzato che ancora oggi viene utilizzato nei corsi universitari di cinema come esempio di come scrivere una buona sceneggiatura, che non a caso nel 1976 aveva vinto l’Edgar Award della Mystery Writers of America. In origine, per la regia era stato ingaggiato Peter Yates con Warren Beatty che avrebbe dovuto essere il protagonista. Quando fu scelto Redford, lui preferì Sydney Pollack, così il produttore Dino De Laurentiis pagò a Yates l’intero compenso di 200.000 dollari per non girare, e questo nonostante Yates avesse già diretto Redford in The Hot Rock (La Pietra che Scotta, 1972).

Pollack – che porta a casa un David di Donatello, premio speciale per la regia nell’edizione del 1976 – dirige con grande sobrietà, evitando le acrobazie di stile e preferendo un tono realistico e claustrofobico. La sua regia predilige ambienti urbani freddi e alienanti, New York diventa quasi un personaggio: gelida, invernale, fatta di palazzi anonimi, strade semideserte, interni asettici che amplificano il senso di solitudine del protagonista. In realtà il film è stato girato nell’autunno del 1974 pur essendo ambientato in inverno. Per ricreare l’atmosfera, sugli alberi delle strade in cui si girava si dovettero togliere foglie e defogliare i rami; Redford, ecologista convinto, controllò di persona che non si danneggiasse la vegetazione. La macchina da presa si concentra spesso sui volti, sulle esitazioni, sull’attesa, facendo sentire lo spettatore dentro la spirale di sospetto che avvolge Turner.

È un thriller tesissimo, che privilegia il senso di smarrimento alla pura azione. Escludendo i titoli di apertura, il film conta circa 1.172 inquadrature in 1 ora, 53 minuti e 8 secondi, per una durata media di circa 5,8 secondi a shot. Non pago di dirigere, Sidney Pollack si diverte anche a comparire in tre piccoli camei: è la voce del fidanzato di Faye Dunaway al telefono, il tassista che sbraita contro Redford distratto per strada ed anche l’uomo che lancia un “Hey, Kathy” poco prima che lei entri in casa con Turner.

Tra i visitatori del set durante le riprese nomi come Andy Warhol, il regista Paul Morrissey, l’attrice Ellen Burstyn, la cantante lirica Beverly Sills e Patricia Kennedy. Pollack fece causa alla TV danese dopo che quest’ultima, nel 1991, trasmise una versione pan and scan del film. Il tribunale stabilì che quella versione era una mutilazione dell’opera e una violazione del droit moral del regista, il diritto legale come artista a proteggere l’integrità del proprio lavoro.

Tuttavia, la corte si pronunciò a favore dell’emittente per un cavillo tecnico. La colonna sonora di Dave Grusin (in una delle tante collaborazioni con Pollack) gioca un ruolo fondamentale. Con le sue sonorità jazz-funk, tipiche dell’epoca ma qui dosate con eleganza, crea un sottofondo nervoso, moderno e urbano. Non si tratta di un accompagnamento neutro, ma di una musica che restituisce l’atmosfera di instabilità, rendendo palpabile la tensione anche nei momenti di quiete apparente.

Robert Redford fu coinvolto molto presto per il ruolo principale, già stella affermata, era interessato a storie politicamente rilevanti, in linea col suo impegno politico e sociale, che rispecchiassero le ansie del decennio. Come detto, fu lui a proporre Pollack con cui aveva lavorato in due occasioni (su sette complessive), e condivideva sensibilità progressista ed il desiderio di un cinema impegnato, oltre ad una visione critica dell’America contemporanea. Il suo è un coinvolgimento totale.

Redford, ad esempio, voleva che il film conservasse riferimenti concreti alla CIA e al controllo dei media; alcune scene, come il confronto finale con il giornalista del New York Times, furono aggiunte proprio per accentuare il legame con l’attualità. L’ex direttore della CIA Richard Helms fece da consulente personale per il suo ruolo del Condor. E Robert, manco a dirlo, è perfetto nei panni di Turner: non un eroe addestrato, ma un uomo comune, colto e idealista, gettato suo malgrado in una situazione più grande di lui. La sua interpretazione funziona proprio perché rompe con l’iconografia tradizionale della spia, Turner non sa combattere, non è infallibile, ha paura.

Eppure trova risorse che non pensava di avere per affrontare di petto il problema, prima tenta di scappare ma poi lo affronta in contropiede. Redford porta umanità e fragilità al centro della narrazione, incarnando un antieroe moderno e credibile, riluttante, intellettuale e vulnerabile, lontano dagli agenti invincibili alla James Bond. Ma anche brillante nel problem solving, carismatico come il suo interprete.

Accanto a lui, Faye Dunaway – che in quel momento era una delle attrici più acclamate – interpreta Kathy, una fotografa che viene coinvolta suo malgrado. La sua è una prova interessante, una presenza che aggiunge una dimensione emotiva al film. Diversi critici all’epoca giudicarono il loro rapporto forzato e poco realistico nei tempi e nei modi, quando invece contribuisce a definire ancora meglio sia Turner che la sua missione disperata. Kathy è spaventata, ma ad un certo punto cede all’istinto, non sessuale (o almeno non solo) ma proprio di donna che dietro un comportamento apparentemente folle riesce a cogliere la sincerità e la genuinità di quella che in sostanza è una richiesta di aiuto.

La Dunaway offre quindi un contrappunto interessante, una donna anch’essa prigioniera delle proprie insicurezze, che riflette e amplifica le paure del protagonista, un personaggio forzatamente trascinato nella faccenda, che diventa specchio delle paure e delle contraddizioni dell’America del tempo, ma che è anche capace di adattarsi e di reagire. Nella sua autobiografia, l’attrice ricorda che, pur avendo un buon rapporto professionale, lei e Redford parlavano poco fuori dal set in quanto lui dedicava gran parte del tempo libero alla preparazione di un altro filmone come Tutti gli Uomini del Presidente.

Da non dimenticare il lavoro di Cliff Robertson, funzionario della CIA dal volto ambiguo, accettò la proposta perché interessato ai temi di etica e potere, benché la parte fosse meno centrale. E soprattutto Max von Sydow, già volto bergmaniano, indimenticabile sicario europeo, incarnazione glaciale e professionale del lato più oscuro e burocratico del male, aggiunge una nota di autorevolezza europea ad un personaggio che sarebbe diventato archetipico del killer silenzioso e metodico.

Uscito nell’autunno 1975, I Tre giorni del Condor fu accolto bene sia dalla critica che dal pubblico. Incassò oltre 41 milioni di dollari negli Stati Uniti, a fronte di un budget di circa 8 milioni, confermando la presa commerciale del genere. E consolidando Redford come star capace di scegliere progetti di peso culturale, non solo di successo economico. Così come la critica lodò in particolare la capacità del film di intrecciare intrattenimento e riflessione politica.

Un film che a distanza di 50 anni esatti rimane un classico del cinema politico e cospirativo americano degli anni ’70, non solo come esempio di cinema di genere raffinato, ma anche come documento culturale che ci restituisce l’atmosfera di sfiducia e tensione del periodo. Ancora oggi è citato come esempio perfetto di come Hollywood abbia saputo assorbire l’ansia sociale e trasformarla in intrattenimento sofisticato. E che ha influenzato numerosi spy-thriller successivi, fino a Spy Game (2001), sempre con Redford, che ne rielabora alcuni motivi.

Un’opera che fa parte di un’eredità preziosa come quella lasciataci da Robert Redford, attore e regista capace di incarnare ideali, dubbi e fragilità della sua epoca, e mecenate che ha rivoluzionato il cinema indipendente americano. In un’epoca di divi usa e getta, ha scelto di resistere, reinventarsi e dare spazio agli altri. Dal volto magnetico del Sundance Kid al sogno del Sundance Institute, dimostrando che fare cinema può significare anche cambiare il mondo, un film ed un regista alla volta. Oggi la sua opera resta viva, un punto di riferimento imprescindibile per chi vuole comprendere cosa significhi fare cinema in America e costruire un’impronta che va ben oltre lo schermo.

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Published by
Francesco Chello