Piacevole variazione su tema del killer alla Wolf Creek, il lungometraggio di debutto del regista australiano è ulteriore conferma della validità del cinema autoctono
Debutto alla regia di Damien Power dopo diversi cortometraggi quali A Burning Thing e Boot, Killing Ground riprende senza particolare visionarietà, ma con una buona tecnica quanto già visto in Wolf Creek, risultando una piacevole variazione su tema del sottogenere.
Il preambolo è piuttosto lungo e l’attesa per il momento clou piuttosto dilatata; é infatti inizialmente, e per una buona mezz’ora, strutturata una estesa premessa che presenta i tre gruppi di personaggi, in preparazione dell’incontro tra prede e cacciatori, che costituirà poi l’apice dell’azione. Divisi in tre piccoli gruppi che in principio si tangono solo in maniera appena percettibile, anzitutto abbiamo i già citati killer, che in un lungo antefatto vengono mostrati mentre si aggirano in cerca della prossima prema; poi ci sono Sam (Harriet Dyer) e Ian (Ian Meadows), una giovane coppia di innamorati che ha deciso di trascorrere il capodanno da soli in un romantico campeggio; infine troviamo i loro unici vicini, nel luogo altresì isolatissimo, ossia una famigliola amante della natura, composta dai coniugi Margaret (Maya Strange) e Rob (Julian Garner), dalla figlia adolescente Em (Tiarne Coupland) e da un neonato, Ollie (nella parte del quale si alternano i due gemelli Liam e Riley Parkes).
A lungo la macchina da presa segue i personaggi, tra amoreggiamenti, scampagnate, giri per i bar dei due loschi individui e simili amenità, poi finalmente si arriva agli inseguimenti e alle torture. Diversamente da Blood Hunt, che costruiva buona parte della suspense già dal viaggio in macchina, Killing Ground sceglie in primo luogo di ambientare le fughe nei bochi e pressoché solo a piedi, a parte un paio di passaggi marginali; tale scelta è certo intelligente, sfruttando lo spazio per generare angoscia, trasmettendo allo spettattore il senso di ansia e smarrimento dei fuggitivi bracciati nel labirinto di alberi.
Meno saggia invece è la decisione di tralasciare quasi tutta la violenza sugli sventurati, rendendo quello che prometteva di essere un torture porn un po’ monco, e discostandosi così dal felice esempio rappresentato nonché da Wolf Creek, in cui la parte di sevizie ai prigionieri viene mostrata con dovizia di particolari e dilungandosi parecchio. Certo, vero è che ci sono anche immagini forti, come un crudele gioco alla Guglielmo Tell procrastinato su dei bersagli legati con una lattina di birra sul capo, ma si tratta di pochi colpi, una pallottola in testa a uno, una nel costato all’altro e si taglia corto così. Per il resto sono solo peregrinazioni per i sentieri boschivi, inizialmente percependo solo la minaccia dello sconosciuto accompagnatore di turno, ossia il carnefice, poi quando questa è conclamata, correndo a perdifiato nel tentativo di salvasi.
Indubbiamente però la struttura, che è basata sulla compenetrazione di due piani temporali differenti, riesce a coinvolgere chi guarda e nessuno viene risparmiato per politically correct; c’è anzi l’uccisione di un personaggio che si rivela particolarmente scioccante, almeno per ciò a cui siamo abituati oggi, non per il modo, ma per l’obiettivo (non specifichiamo oltre per evitare spoiler). Infine, anche quando tutto sembra tranquillo, ci sono momenti del tutto inaspettati che ribaltano la situazione e lasciano il pubblico stupito, fatto raro di questi tempi.
Non particolarmente brutale, né eccezionalmente innovativo Killing Ground è comunque un buon esempio di thriller su efferati serial killer con qualche incursione in dettagli più truci, che ci mostra ancora una volta quanto possa essere promettente la cinematografia australiana.
Di seguito il trailer: