Ennesimo fallimento nel mettere in scena l'operato di una setta, il film è una silloge di cliché e performance maldestre
C’è un arcano motivo per cui, seppur argomento denso di spunti accattivanti, i film incentrati sulle sette sono sempre assai deludenti. Quale miglior soggetto di un gruppo di persone, private della loro volontà da un continuo lavaggio del cervello, disposti a tutto per seguite un oscuro Guru, dalla volontà di potenza. I fatti di cronaca, peraltro, forniscono numerose storie vere, dal suicidio di massa a Jonestown, agli omicidi della setta di Charles Manson, fino alla Colonia Dignidad e alle terrificanti vicende legate a Warren Jeffs, il materiale certo non manca, eppure quando approda sul grande schermo quasi tutto è banalizzato e piuttosto scialbo.
Al centro della narrazione, alquanto banale a essere sinceri, c’è la solita comune mansoniana hippie dai contorni sinistri e criminali. Declinazione peculiare, si tratta di una sorta di gineceo o harem, in cui unica figura maschile presente è il leader concupitore Brent, interpretato da un non sufficientemente carismatico Derek Smith. All’interno del gruppo, dunque, che in una casa isolata nei boschi nei pressi di un paesino montano, evocativamente chiamato Idyllwood, dove sembrano avvenire inspiegabili sparizioni, l’ultima quella di Haley (Lisseth Chavez). Partendo da un torbido corollario, lo sviluppo della trama è allora incentrato su una sorta di indagine di una giornalista infiltrata sotto mentite spoglie, Melanie (Christa B. Allen). Rampante e volitiva reporter, la protagonista viene presentata come sprezzante di ogni pericolo e a caccia del prossimo scoop, che gli viene fornito proprio dalla suddetta ragazza scomparsa, che poco prima di svanire nel nulla la chiamò disperata e terrorizzata. Si Finge quindi una donna in fuga da un rapporto violento, Mary, e un livido sull’occhio, lascito della precedente missione, rende più plausibile la versione fornita per entrare nella Java Collective. Inizialmente tutto come è d’uopo sembra dominato da pace ed armonia, le proselite sono sorridenti e lavorano nella natura, il loro capo spirituale amichevole, ma come è facilmente presagibile si tratta di una facciata e l’idillio si tramuta velocemente in una prigione.
Nelle aspirazioni, Reigle mira probabilmente a delineare il lento sprofondare da un clima armonioso e da bucolica fuga dalla civiltà in un’ossessione senza via di scampo, tratteggiando il progressivo asservimento psichico e fisico delle adepte condendo con allucinogeni e droghe non ben definite che privano della volontà. Delirio fin troppo lucido nella sua trasposizione nel fotogramma, la componente onirica e la psicosi indotta si limitano a poche sconnesse sequenze in cui un manipolo di giovani vestite di bianco e con indosso una maschera da agnello professano insieme mantra posticci, mentre il loro leader mascherato da lupo si appropinqua minaccioso, il massimo dello shock è quando, in alternanza sincopata, le vesti del gruppetto sono prima linde, poi sporche di sangue. Insomma l’incubo messo in scena non è esattamente terrificante. D’altra parte, l’altra componente che avrebbe potuto e dovuto essere altamente disturbante, la descrizione della fase del plagio e delle sue implicazioni, è appena accennata, totalmente incapace di trasmettere inquietudine, nelle immagini, nelle inquadrature e, più di tutto, nella recitazione.
Ennesima delusione dal mondo delle sette, chissà se in futuro l’argomento riuscirà dar vita a opere di finzione valide come The Wicker Man di Chistopher Lee o ad avvicinarsi al più che rimarchevole e più recente Kill List di Ben Wheatley… Nell’attesa, in caso permanere in voi la curiosità riguardo a One of Us, potete vedere in seguito il trailer, giusto per farvi un’idea: