Nel suo primo lungometraggio, il regista dà vita a una narrazione chiusa, ermetica, dove l'elemento naturale parla più dei personaggi stessi
Estremamente contemplativo e interiore, Shelley, primo lungometraggio di Ali Abbasi allude a un orrore che non si concretizza mai davvero, dando la sensazione di rimanere sospesi nel dubbio senza in realtà giungere a carpire nulla di concreto.
Come nel classico di Roman Polanski del 1968, la gravidanza è difficile, ci sono mille complicazioni e la futura madre sembra essere in preda a una strana forma di psicosi, per cui crede di vedere e sentire ciò che non esiste, ancor più nei sogni che divengono sempre più terrificanti. Sente piangere nell’oscurità, sta attraversando una caverna e trova a terra un bambino coperto di vermi, visione inquietante e sinistro presagio. Per buona parte della durata, tuttavia, la narrazione non va oltre la suggestione, al contrario della pellicola polanskiana, non è mai costruita una reale tensione, non esiste la scoperta di una terrificante verità, né morti misteriose, né infine un’elite di satanisti che mirano alla incarnazione del loro oscuro signore.
Il film vorrebbe essere disturbante, permanendo allo stesso modo solo nello psicologico, nell’emisfero della mente, ma il male troppo di rado ne fuoriesce per pervadere il reale e accade troppo impercettibilmente: le galline iniziano a temere improvvisamente Elena, la ragazza sogna di essere ricoperta di sangue e poi la mattina di risveglia con la bocca sporca di una sostanza rossastra, un bambino preso da un raptus all’apparenza immotivato le prende a pugni la pancia, tutto rimane sempre ammantato di normalità, è spiegabile con la logica, e l’estetica del fotogramma non riesce ad aggiungere una reale incisività agli eventi. Non c’è sufficiente oscurità. Numerose sono le scene che dovrebbero lasciarci angustiati, ma l’orrore è troppo superficiale, solamente accennato, se ne vede solo il fantasma evanescente e la sensazione svanisce presto, lasciandoci insoddisfatti.
Anche le sequenze più incisive, di norma quelle oniriche o allucinate, non portano a termine ciò che iniziano, sono solo pochi fotogrammi, come l’apparizione dell’immagine notturna e sinistra di Elena a Leo, che emette suoni incomprensibili e cacofonici, è fulminea e profondamente disturbante, suggerisce qualcosa, ma quello che segue non è all’altezza. Si tratta forse della scelta del regista di oscillare tra il razionale, il tangibile e l’arcano, che per sua natura nella sfera sensibile non è mai del tutto concretato, la stessa natura maligna del neonato è intangibile, si vorrebbe mostrare il demone celato dietro l’innocenza, ma in realtà si vede solo quest’ultima. Ne è l’emblema la scoperta stessa dell’essenza del nuovo nato: il santone, guida spirituale della coppia, la percepisce, ma l’unico riscontro, visivo, che ne abbiamo noi è un dettaglio degli occhi, azzurri dell’uno e dell’altra (si tratta di una bimba) in un campo contro campo e questo è quanto, poi uno stacco netto e si passa ad altro.
Praticamente privo di ogni spettacolarizzazione del Male, Shelley è un lavoro incredibilmente intellettuale ed estetico, estremamente chiuso, eppure nella sua ermeticità ha un certo fascino, più iconico che affabulatorio, che tuttavia è capace di assorbire chi in un film non cerchi solo un coinvolgente immediato.
Di seguito il trailer: