Matt Damon era al centro di un blockbuster intelligente che trasforma la scienza in puro cinema d’avventura
In un’epoca in cui il cinema popolare alimenta(va) soprattutto fantasie di onnipotenza supereroistica, Sopravvissuto – The Martian rimetteva al centro un’utopia più concreta: la fiducia nella scienza, nel metodo, nella collaborazione. È un film che fa sognare non di volare, ma di ragionare; non di avere poteri, ma di mettere all’opera conoscenze e tenacia.
In questo senso l’opera di Ridley Scott – che adatta il romanzo omonomo di Andy Weir – funziona come antidoto culturale e come dichiarazione d’amore per l’ingegno umano: l’astronauta Mark Watney non vince perché è “speciale”, ma perché conosce botanica, fisica, chimica, perché sa calcolare, sbagliare, ricominciare. Proprio questa centralità del problema concreto e della soluzione possibile rende la visione sorprendentemente avvincente: la suspense nasce da una somma di ostacoli pratici che si trasformano, uno dopo l’altro, in traguardi, con una progressione narrativa che richiama più “Apollo 13” che non il brivido continuo di “Gravity”.
La regia ritrova un Ridley Scott in forma, capace di conciliare vastità spettacolare e misura umana. La messinscena di Dariusz Wolski evita l’esibizione per scegliere un realismo elegante, col deserto giordano che diventa un Marte credibile, mai cartolina. L’attenzione ai dettagli tecnici, condensati in dialoghi chiari e azioni leggibili, costruisce un mondo plausibile “del dopodomani”, in cui l’avventura è tanto più grande quanto più resta verosimile. Anche la musica contribuisce a smorzare l’enfasi: i brani anni Settanta lasciati dal comandante della missione, usati con autoironia, alleggeriscono senza mai banalizzare, e trasformano la solitudine in un controcanto di resistenza.
Matt Damon offre una delle sue prove più complete qui: arguto, concreto, privo di retorica, regge da solo lunghi segmenti grazie a un equilibrio raro tra brillantezza e fragilità. La sua leggerezza non dissolve la paura, la rende praticabile: i diari video non sono valvole comiche, ma strumenti di pensiero che danno forma al processo mentale del personaggio e, insieme, educano lo spettatore al modo in cui si risolvono i guasti. Intorno a lui, un cast corale – dalla squadra in orbita alla macchina terrestre – mette in scena il vero tema del film: l’intelligenza collettiva.
Se “Interstellar” cercava la metafisica e finiva talvolta per perdersi nella teoria, Sopravvissuto – The Martian sceglie la concretezza e la trasforma in spettacolo. È un’opera apertamente ottimista, persino contagiosa nel modo in cui esalta la cooperazione tra agenzie, paesi, reparti; qualcuno potrà leggerci una patina promozionale, ma il film evita gli inni trionfalistici per restare su una linea più sobria: ciò che galvanizza non è la bandiera, è il lavoro ben fatto. Laddove tanti kolossal si affidano al ritmo di inseguimenti e detonazioni, qui la tensione è un flusso continuo: pianificazione, test, fallimento, riprogettazione. Ogni “micro-missione” ha una chiarezza drammaturgica che sostiene l’attenzione per oltre due ore, senza bisogno di comprimere le tappe o semplificare i passaggi.
La forza del film sta anche nel suo sguardo pedagogico mai paternalista. La celebre battuta in cui Watney annuncia che “risolverà tutto con la scienza” riassume una poetica: non la scienza come totem, ma come pratica quotidiana, fatta di tentativi, di limiti, di soluzioni parziali. È per questo che Sopravvissuto – The Martian è al tempo stesso avventura e manuale di sopravvivenza, epopea e laboratorio. L’eroismo, qui, è un’abitudine tenace: coltivare patate con risorse minime, riciclare ogni scarto, trasformare un modulo in serra e una rover in arca. Persino la colonna sonora “leggera” diventa una dichiarazione: resistere è anche saper ridere, non perché il pericolo sia finto, ma perché la lucidità richiede ossigeno emotivo.
I limiti stanno dove il film, per scelta, non va: i personaggi a Terra sono soprattutto funzioni narrative, delineati per tratti rapidi; il conflitto politico rimane sullo sfondo, e la dimensione emotiva collettiva si condensa in immagini di pubblico planetario partecipe. Ma sono rinunce coerenti con l’idea di base: asciugare il superfluo per far respirare il procedimento, trasformare la precisione in tensione. E così l’opera diventa un elogio della competenza, un racconto popolare che mostra perché le discipline “difficili” siano anche appassionanti.
In definitiva, Sopravvissuto – The Martian è quella rarità: un grande film ad alto budget che non tratta il pubblico da spettatore passivo, ma da compagno di viaggio. È una lezione di fiducia nel futuro che non scivola nell’ingenuità; un cinema che risveglia la voglia di capire come funzionano le cose; una storia di resilienza che restituisce fascino alla parola “progetto”. Per questo la sua eco va oltre la sala: ci ricorda che l’avventura più emozionante del nostro tempo non è il miracolo, è il lavoro condiviso tra esseri umani che decidono, insieme, di non lasciare indietro nessuno.