Nel 2005 il regista neozelandese portava al cinema il sogno di una vita, un film mastodontico e rischiosissimo, dall'aspetto fresco e filologicamente corretto, capace di far sorridere e commuovere
Difficile confrontarsi con una pietra miliare del cinema. Difficile e rischioso, ma Peter Jackson è (era?) un regista coraggioso. E con il suo coraggio e la sua capacità creava nel 2005 un nuovo King Kong, in uno sforzo che – nel bene o nel male – verrà ricordati nella storia della cinematografia. Non è che l’esperimento sia costato poco al premio Oscar per Il Signore degli Anelli pochi anni prima. Per capirlo sarebbe stato sufficiente vedere il suo volto, una volta rubicondo, scavato al tempo delle prime interviste promozionali. Il regista neozelandese aveva infatti perso una ventina di chili nel creare il suo scimmione. Non poteva essere altrimenti: tutta la sua carriera cinematografica era fondata sul questo film. Vide King Kong del 1933 in TV, quando aveva nove anni. Da allora si innamorò del cinema, da allora decise di fare film. Da allora, nei suoi sogni, c’era il remake del suo film preferito di sempre.
Il King Kong di Peter Jackson è un film moderno, irrealizzabile senza gli effetti speciali del ventunesimo secolo, eppure il suo è un fascino antico. La sigla si apre con le immagini e la colonna sonora di quel vecchio film di Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack, l’ambientazione è quella degli anni trenta, i sentimenti sono quelli immortali e senza tempo della paura del diverso, dell’amore contrastato e impossibile, del fascino dell’avventura. Tre ore che scorrono senza annoiare mai, nonostante la trama sia nota a tutti e il finale scontato. Anzi, il pubblico tifa per Kong, esulta ad ogni aereo abbattuto con una zampata. Lui è spaventoso, selvaggio, ha lunghe zanne.
Peter Jackson ha preso come modello un gorilla vero, un ‘silverback’ e lo ha fatto sembrare molto anziano, facendolo ‘muovere’ grazie alle innovative tecniche digitali della motion capture e ad Andy Serkis, il Gollum del Signore degli Anelli. L’ha voluto con tante cicatrici, a dimostrazione che ha sempre dovuto combattere con i tirannosauri e che nonostante la mole non ha avuto vita facile. L’ha voluto spaventoso, terrificante, così da sembrare il più cattivo e il più crudele scimmione mai immaginato. Poi, però, rivela il suo cuore. E infatti il pubblico parteggia per lui, spera che alla fine succeda qualcosa, che Jackson abbia deciso di stravolgere il finale. Non l’ha fatto, per fortuna, e per questo il film mantiene intatto il suo fascino.
La prima parte è la storia di un viaggio per mare, un viaggio periglioso, alla ricerca di un’isola che non si trova. Poi lo sbarco, la sensazione di terrore, l’incontro con una civiltà primitiva. Ann, la protagonista femminile, interpretata da Naomi Watts, viene presa in ostaggio. Sarà vittima sacrificale per placare le ire delle creature selvagge che popolano l’isola. Le sue urla attirano Kong. La bellezza e il coraggio della donna lo colpiscono. Ann non ha paura di lui. King Kong la sente urlare e ne intuisce il carattere. Poi quando lei lo ferisce a una mano, capisce di trovarsi davanti a una creatura simile a lui, rara, e se ne innamora. Lei lo seduce, si mette a ballare per lui che ora ha un aspetto inoffensivo, da grosso peluche rassicurante. Si ride di gusto, ma non si fa a tempo a godersi questo momento perché Ann è nuovamente in pericolo, circondata da tirannosauri. Viene nuovamente salvata da Kong.
E fin qui tutto come da tradizione. Ma vale la pena di porre l’accento sul fatto che il film è forse non solo migliore di ogni ragionevole aspettativa, ma che – soprattutto – è filologicamente corretto, assai fedele all’originale del 1933, ma non «uguale», visti i mastodontici 187 minuti di durata rispetto ai 104 del precedente. Cosa c’è, dunque, in più?
La risposta non è di mero contenuto: le differenze tra il capostipite e il remake stanno tutte in quegli 83 minuti, che poi corrispondono ai 72 anni trascorsi da un film all’altro. Perché il King Kong di Peter Jackson è, né più né meno, il King Kong che Schoedsack & Cooper avrebbero voluto realizzare nel ’33 e non poterono, a causa delle tecnologie ancora arcaiche, del budget risicato (la Rko non credeva molto nel progetto) e del talento registico dei due, indiscutibilmente inferiore a quello del neozelandese.
Gli 83 minuti «in più», dunque, contengono: uno splendido prologo nella New York anni ’30, ovviamente ricostruita in studio, e in digitale, come tutto il film (in una decina di minuti Peter Jackson ricrea l’America della depressione: gente che dorme per strada, le «Hooverville» – le baraccopoli – a Central Park, gli spettacolini di infimo ordine in uno dei quali lavora come saltimbanco proprio Ann Darren); una spettacolare sequenza di naufragio; l’incontro della troupe cinematografica, guidata dal regista Carl Denham (Black), con un branco di brontosauri; il succitato feroce duello tra King Kong e tre tirannosauri, molto lungo, piuttosto divertente, forse un po’ sbrodolato; la «seduzione» di Kong da parte di Ann, che rifà per lui i giochetti e le capriole che faceva nei vaudeville; la cattura di King Kong sulla riva del mare, diversa dall’originale; l’incontro newyorkese fra Kong e Ann, l’unica libertà forte che Peter Jackson si prende rispetto al vecchio film (qui non è Kong a catturare la bionda, è la bionda ad andare da lui per salvarlo); e infine la scena in cima all’Empire State Building, simile, ma assai più lunga.
Kong è vecchio, pieno di cicatrici, rabbioso perché solo, pronto a commuoversi e morire per Ann. Dire che l’interpretazione di Kong (quindi di Serkis, ma anche dei computer) è di gran lunga la migliore del film non è una battuta: tutti gli altri, da Jack Black a Adrien Brody, fino alla bionda Naomi Watts al posto che fu di Fay Wray, sono solo «normali», anche se fanno il loro e sono infinitamente più bravi di quasi tutti gli attori, modesti, del vecchio film.
Sì, Peter Jackson ha fatto davvero il film hollywoodiano finale, quello dal quale non si torna più indietro. E lo ha fatto ricostruendo New York in Nuova Zelanda, scegliendo per il ruolo di Ann un’attrice inglese cresciuta in Australia, sfidando Steven Spielberg sul suo terreno e usando gli stessi sceneggiatori e tecnici della trilogia de Il Signore degli anelli. Ha ricomposto il puzzle della fiaba, usandone con sapienza gli elementi visionari ed emotivi: ha preso un classico del cinema americano fantastico spingendo il potenziale di Hollywood all’estremo, ma senza mai metter piede a New York né a Los Angeles.
Ha stravinto tutte le scommesse, compresa, in misura forse inferiore alla aspettative dello studio, quella del box office: 550 milioni di dollari in tutto il mondo (il quarto film con il maggior incasso nella storia della Universal Pictures all’epoca), più altri 100 milioni dalle vendite home video. Senza dimenticare i 3 premi Oscar per le categorie tecniche.
Di seguito la clip dell’attacco degli insetti giganti di King Kong: