Horror & Thriller

Recensione story | Misery non deve morire di Rob Reiner

Nel 1990 arrivava sul grande schermo il film con James Caan e Kathy Bates (poi premio Oscar per l'interpretazione), adattamento teso e perversamente ironico dell'omonimo romanzo di Stephen King

Stare alla larga dalle ammiratrici sfegatate. Di questa regola ne sapeva già qualcosa Clint Eastwood, che nel suo primo film da regista, Brivido nella notte del 1971, raccontava il paranoico rapporto tra un DJ radiofonico e una fan piuttosto opprimente. Figuratevi che cosa poteva uscirne se un soggetto del genere fosse finito nelle mani, con accenti vagamente autobiografici, di un tipo come Stephen King, non a caso soprannominato il ‘re del brivido’ e frequentatore dell’orrore quotidiano di vecchia data, che nel 1987 pubblicò appunto la sua personale rivisitazione del tema con Misery.

Affidandosi per la seconda volta al talento del cineasta Rob Reiner dopo il successo di Stand by Me – Ricordo di un’estate del 1986, lo scrittore del Maine nel 1990 portava quindi nei cinema Misery non deve morire, proseguendo nel suo viaggio dentro alle insidie del mestiere narrando l’allucinante avventura di Paul Sheldon (James Caan), romanziere affermato spiritosamente ricalcato sulla figura di Sidney Sheldon (L’altra faccia di mezzanotte).

Ricco ma stanco di scrivere dei romanzetti stile Harmony che hanno per protagonista un’eroina ottocentesca di nome Misery, Sheldon ha appena finito di scrivere il libro della sua vita, quello che dovrebbe dargli finalmente la dignità d’autore che la critica non gli ha ancora riconosciuto, ma sulla strada che lo porta dalle montagne del Colorado a New York incappa in una violenta tempesta di neve e finisce fuori strada con la sua macchina.

Morirebbe se una donna del luogo non lo portasse a casa e lo curasse amorevolmente. Bella fortuna, direte voi. Non nel caso di Annie Wilkes (Kathy Bates) un’infermiera professionista con la passione sfrenata per Misery alla quale non va tanto giù che il personaggio dei suoi sogni stia per essere ucciso sulla carta dallo scrittore.

Tesissimo thriller da camera costato 20 milioni di dollari (ne incasserà 60 nel mondo), quasi interamente ambientato nella fattoria isolata dove la convalescenza si trasforma in prigionia, Misery non deve morire porta alle estreme conseguenze, in una coloritura cupamente metaforica, il legame di dipendenza psicologica che connota talvolta la letteratura popolare di consumo. Nevrotica e diabolica, dietro l’aspetto rassicurante da brava massaia, Annie inchioda – letteralmente – il povero Sheldon al letto. Lo riempie di barbiturici, gli spacca le gambe con una mazza per non farlo fuggire e lo obbliga a partorire una nuova avventura più felice per la sua Misery.

“Non ti illudere che ti venga a cercare qualcuno”, lo minaccia la psicotica donna, in un’alternanza di soavità e crudeltà. Niente la può fermare, neanche la grinta di uno sceriffo locale (Richard Farnsworth) che ha capito tutto sfogliando vecchie annate di giornale, o forse solo la paura che quel prezioso manoscritto vada perduto.

La solidissima sceneggiatura firmata dal veterano William Goldman (Il maratoneta) esalta i dialoghi, che suonano come paradossali lezioni sulla letteratura fra impegno e disimpegno, ma escogita un lieto fine che Stephen King aveva accuratamente evitato nel romanzo originale, forse per rendere più angosciante la condanna alla ripetitività che anch’egli aveva patito (si fa per dire …) ma che gli aveva garantito fama e successo; ma si può capire l’ansia dei produttori di Hollywood di far tirare al pubblico un respiro di sollievo dopo 100 minuti di terrore claustrofobico.

Senza ricorrere a particolari effettacci truculenti e ricorrendo a un’orchestrazione della suspense incisa completamente sui volti dei due protagonisti (mai visto prima di allora un James Caan tanto bravo e sornione come in questo personaggio, che non rinuncia a difendersi e a lottare per la sopravvivenza, mentre Kathy Bates, che vinse giustamente per il ruolo Golden Globe e Oscar, mescola alla perfezione normalità e furore, patetismo e parossismo aggressivo), Rob Reiner fa di Misery non deve morire un piccolo esercizio di stile che non sarebbe dispiaciuto al vecchio Alfred Hitchcock, dimostrando a se stesso e al pubblico di essere perfettamente in grado di passare dal fantasy (La storia fantastica), alla commedia sentimentale (Harry, ti presento Sally) al quasi horror perversamente ironico (senza contare i dischi di Liberace, grondanti sentimentalismo, che forniscono un malizioso contrappunto all’azione).

Di  seguito la clip originale in cui Annie compra la carta sbagliata di Misery non deve morire:

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Published by
William Maga