Horror & Thriller

Year 10 – Sopravvivenza letale: recensione del survival horror muto di Benjamin Goodger

Un'opera a basso budget suggestiva e potente sul piano visivo e sonoro, ma frenata da una scrittura esile

Year 10 – Sopravvivenza letale è un piccolo film di sopravvivenza che ambisce a parlare in silenzio. Dieci anni dopo il crollo della civiltà, tra branchi di cani inselvatichiti e gruppi di predatori, un ragazzo senza nome (Toby Goodger) attraversa un mondo sfibrato per recuperare antibiotici rubati a chi ama. La scelta più evidente – e rischiosa – è l’assenza di dialoghi: non un sistema alternativo di comunicazione, non un alfabeto dei gesti, solo respiro, scricchiolii e colpi.

Questo mutismo programmatico dà compattezza all’idea e coerenza all’universo sonoro, trasformando la colonna musicale di Mario Grigorov e Matt Hill nel vero “apparato vocale” del film. Ma la stessa scelta, alla lunga, mette a nudo i limiti drammaturgici: senza una relazione linguistica che apra varchi interiori, il coinvolgimento emotivo resta spesso epidermico, per quanto gli sforzi fisici del protagonista siano convincenti.

Dal punto di vista visivo Year 10 costruisce una terra esausta con coerenza: fotografia smorzata, tavolozza terrosa, inquadrature che insistono su boschi e campi svuotati. L’idea guida è efficace: allargare il quadro per far sentire il vuoto, poi restringerlo per insinuare il pericolo. I punti di vista in agguato e le osservazioni a distanza comunicano l’ansia di essere visti prima di vedere. In questo, l’opera si inserisce nella linea del cinema post apocalittico più cupo, dove un pacchetto di biscotti o una manciata di pillole assumono un valore enorme e dove il cannibalismo – evocato fin dai cartelli iniziali – è meno spettacolo che fantasma morale. La regia sceglie la sottrazione: evita spiegoni, suggerisce più di quanto mostri, ma talvolta resta a metà strada; alcuni motivi (il tema antropofago) sono annunciati e poi lasciati come ombre ai margini della scena.

Il cuore narrativo è un racconto d’inseguimento: furto, fuga, ricatto del tempo. La mappa del viaggio è semplice, la traiettoria rigorosa, l’intensità costante. Qui emerge il paradosso di Year 10: l’unità di tono è al contempo forza e zavorra. Il film parte alto, mantiene un battito d’allarme quasi ininterrotto e raramente concede un’onda di respiro; il risultato, per alcuni spettatori, può essere l’assuefazione al brivido. Quando arrivano scontri, imboscate, corse nel fango, la costruzione dell’azione è nitida, il trucco di scena sporca i corpi con un realismo sgradevole, le cadute fanno male; eppure l’assenza di modulazione rende certi culmini meno incisivi di quanto potrebbero. Si avverte l’origine breve del progetto: l’idea, fortissima in un cortometraggio, fatica a dilatarsi in un lungometraggio senza aprire nuove stanze di senso.

Sul piano tematico Year 10 ragiona sui confini: tra uomo e bestia, tra giustizia e vendetta, tra sopravvivenza e residuo di umanità. Il protagonista scivola progressivamente verso ciò che combatte, e il film lo accompagna senza giudicarlo, come se il collasso del mondo fosse anche un collasso di categorie morali. In controluce affiora un discorso sulla responsabilità intergenerazionale: padri e figli condividono un’eredità di colpa e protezione, dove salvare una vita costa macchiare le mani. È un labirinto etico che il racconto attraversa più per attrito che per parola, affidando ai gesti la misura delle scelte.

Quando il finale si chiude con un gesto secco, ironico e crudele, la curva morale trova coerenza: la sopravvivenza ha un prezzo e non concede risarcimenti.

Il confronto con altri titoli del filone mette a fuoco virtù e carenze. Se le visioni più intimiste del dopo-catastrofe hanno insegnato a raccontare la fame, la paura, il riparo come epica minima, qui la messa in scena del bisogno è credibile e la geografia dei rifugi (capanno mimetizzato, latrina a cielo aperto, sentieri nascosti) ha una concretezza quasi documentaria. D’altra parte, laddove altre opere hanno usato il silenzio per generare linguaggi alternativi o per scandire un’educazione sentimentale alla paura, Year 10 resta chiuso nel proprio dispositivo: la mancanza di scambio frena l’empatia e appiattisce la psicologia. Ne risente soprattutto il legame tra il protagonista e la ragazza ferita, che rimane idea più che relazione, con il rischio di trasformare la missione in un puro motore d’azione.

Il reparto tecnico è la colonna portante. La fotografia di paesaggi vuoti comunica abbandono senza cartoline, il montaggio alterna pedinamenti e scatti con chiarezza, la musica – ruvida, insistita, dissonante – incide la pelle delle scene e supplisce all’afonia dei personaggi. Toby Goodger regge il quadro con un lavoro fisico intenso, fatto di sguardi bassi, corse spezzate, ruvidezza; è una presenza credibile nella fatica. Più in generale, Year 10 è un film di corpo e ambiente: quando si limita a far parlare terreno, vento e carne, funziona; quando tenta di espandere l’universo senza ampliare gli strumenti, mostra i bordi.

Nel complesso, Year 10 è una prova prima coerente nella visione estetica e coraggiosa nella sua scommessa sonora, che offre agli appassionati di cinema post apocalittico un’esperienza sensoriale compatta, tesa, a tratti ipnotica. Va detto che il film convince soprattutto per fotografia e colonna sonora, mentre sul fronte della scrittura resta meno memorabile: l’assenza di dialoghi, scelta identitaria e affascinante, non sempre è compensata da un equivalente spessore relazionale.

Rimane un’opera che merita di essere vista per capire dove può spingersi un racconto di genere a basso volume: quando il mondo crolla e le parole tacciono, a parlare sono suono, spazio e gesto; e Year 10 di Benjamin Goodger – tra cannibalismo evocato, caccia all’antidoto e sopravvivenza nell’ombra – li ascolta con attenzione, anche quando non trova tutte le parole (non dette) per trasformarli in memoria duratura.

Di seguito trovate il trailer internazionale di Year 10 – Sopravvivenza letale, su Prime Video dall’11 settembre:

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Published by
William Maga
Tags: recensione