Virtuale? Psichedelico? Buddista? Difficile definire il film del 1997 con Diego Abatantuono e Christopher Lambert, col quale il regista si cimentava con un genere rischioso, poco frequentato dal cinema nostrano
Gabriele Salvatores, dopo aver esplorato i territori on the road dell’amicizia maschile mischiando rock e Sessantotto, nel 1997 sceglieva con Nirvana di affrontare consapevolmente uno dei generi più rischiosi che ci siano, la fantascienza ravvicinata, quella – tanto per capirsi – che parte dai romanzi di Philip K. Dick per «incarnarsi» cinematograficamente in titoli come Blade Runner, Strange Days (la recensione) o Fino alla fine del mondo, spinto dalla certezza che la commedia all’italiana fosse morta, non essendo più in grado di raccontare la realtà dell’Italia.
Il pressbook per la stampa recitava: «Per il buddismo il ciclo continuo delle morti e delle reincarnazioni può essere interrotto solo raggiungendo il Nirvana, che è lo stato di pace, di distacco e cancellazione del dolore». Proprio quello al quale aspira Solo (Diego Abatantuono), il personaggio di un nuovo videogioco, appunto «Nirvana», che sta per essere spedito sul mercato, in coincidenza con il Natale.
Nel film, ambientato in un Agglomerato del Nord che assomiglia alla megalopoli del capolavoro di Ridley Scott del 1982 (e anche a certi quadri di Mario Sironi), un quotatissimo creatore di videogames violenti sente di non avere «più stelle nell’anima». In crisi professionale e sentimentale, Jimi Dini (Christopher Lambert) deve fare i conti con Solo , che gli chiede di cancellarlo definitivamente dal software nel quale dimora per non essere più costretto a reincarnarsi virtualmente in se stesso ogni volta «muore».
Virtuality è vicina. E non c’è bisogno di aver letto i romanzi di William Gibson sul mondo cyberpunk per accorgersi che la vita dell’uomo contemporaneo si era / è avviata sui binari di una mutazione genetico-elettronica dagli incerti sbocchi. Alla sua maniera, mischiando echi di filosofie orientali e scenari allarmanti di un futuro prossimo venturo, l’allora quarantaseienne Gabriele Salvatores si misurava con Nirvana con i grandi temi di fine millennio, cercando di farci sopra spettacolo.
Nirvana – almeno nelle intenzioni più pure – era / è un film sociologico sul 2005, un futuro prossimo venturo che serviva per raccontare delle angosce molto contemporanee, come l’imporsi del «virtuale» sulla definizione della realtà, la paura di essere dentro un gioco che non abbiamo creato noi, lo sviluppo disordinato delle nuove tecnologie informatiche. Si tratta di una fantascienza che «parla» della testa. Psichedelica. Nel senso di apertura della psiche. Le «porte della percezione» di Aldous Huxley sono diventate delle «finestre», le windows che si
aprono sullo schermo di un computer.
ell’Agglomerato del Nord c’è poco da ridere, anche se, forse per non punire i fan di Diego Abatantuono, Nirvana si divertiva a trapuntare una delle due storie, quella virtuale che narra le avventure di Solo, di battute e situazioni comiche. È infatti un personaggio maldestro e sfigato questo eroe costretto a morire e rinascere ogni volta agli ordini della multinazionale Okosama Starr: occhi azzurri, completo di Armani e baffetto d’ordinanza, l’attore si muove nello spazio elettronico esibendo una gran voglia di diventare qualcos’altro, magari, per dirla con l’adagio Zen caro a Gabriele Salvatores, «un gentile fiocco di neve che non cade in nessun posto».
Cade invece molta neve, soffice ma non indolore, sul Jimi interpretato da Christopher Lambert (forse per esigenze di coproduzione) e sui «quartieri» che compongono l’enorme Agglomerato Nord: Marrakech, Shanghaitown, Bombay City … Un mondo policentrico e pluristratificato, sull’esempio di quella società multirazziale che il recente cinema di fantascienza ha così bene descritto prima. È qui, tra tassisti cinici (Claudio Bisio), venditori di paranoie (Antonio Catania) e balordi in turbante (Silvio Orlando), che sprofonda Jimi nel duplice tentativo di distruggere la copia di «Nirvana» conservata nella banca dati della multinazionale e di ritrovare l’amatissima Lisa (Emmanuelle Seigner). Nell’avventura lo aiutano un hacker proletario con due telecamere difettose al posto degli occhi (Sergio Rubini) e un bella ragazza teorica del karma yoga – lo yoga dell’azione, che si pratica ad occhi aperti – che ha perso la memoria (Stefania Rocca).
E sono queste le parti più godibili del film, in cui proprio la commedia italiana trionfa, vendicandosi dei congelamenti imposti dal progetto. Diego Abatantuono fa un numero memorabile proprio perché incarna con dolente buffoneria e vulnerato buonsenso il diffuso malessere del nostro mondo come ci appare nei momenti di pessimismo: un contesto dai destini segnati, senza più slanci né speranze. I una società suicida che sogna di farsi assorbire in quell’universo superiore chiamato Nirvana dai cultori di orientalismi.
Una lieta sorpresa viene infine anche da un attacco musicale molto «alla Salvatores»: quando, nella metropoli che si prepara a un Natale grottesco e feroce, echeggiano le note di John Barleycorn Must Die, l’armonioso brano dei Traffic che fece sognare tanti agli albori degli anni Settanta.
Di seguito il trailer di Nirvana: