Il regista danese torna dietro alla mdp per affrontare il delicato tema del suicidio assistito immergendo il protagonista in un impianto irrisolto, a metà tra l'autoriale e il mistery
Il giudizio che ciascuno si forma su un film dipende, spesso, non solo dall’opera stessa, ma anche dalle aspettative e dal contesto in cui si vede. Tale premessa non è casuale, ma è essenziale per motivare il nostro giudizio riguardo al danese Suicide Tourist (Selvmordsturisten), nostra prima visione all’interno della 52° edizione del Festival Internazionale del cinema fantastico della Catalogna. Diretto da Jonas Alexander Arnby (al suo secondo lungometraggio dopo When Animals Dream) e scritto da Rasmus Birch, si tratta di un dramma che riflette sulla tragedia della morte e della malattia con una buona dose di prosasticità, assai più adatto a un pubblico più avvezzo al cinema estremamente intellettualoide di Venezia che non a chi cerchi una visione riferibile al cinema di genere.
Le sua stessa trama ufficiale risulta forviante, creando aspettative che non possono che essere disilluse. Il tema trattato, il suicidio assistito, è in effetti di incredibile attualità in Italia negli ultimi tempi, vista anche la recente sentenza della Corte d’Appello sul caso di Marco Cappato e Dj Fabo. Ciò non toglie che, in tal senso, preferibile è allora un film che si concentri sul delicato argomento in maniera più concreta, come Marco Bellocchio aveva fatto nel 2012 con La Bella Addormentata. Fatto singolare, esiste anche un dolorosissimo docu-film del 2010 pressoché con lo stesso titolo internazionale, The Suicide Tourist (2010) di John Zaritsky.
Tuttavia, viene insinuato il dubbio che ci sia qualcosa d’altro sotto alla superficie. Stando a questo preambolo, ci si aspetterebbe uno sviluppo denso di tensione, in cui elementi sinistri e verità da tempo tenute nascoste emergano lentamente, mentre il protagonista scava nelle attività svolte dalla ‘losca’ Aurora. Ebbene, forse qualche elemento è pur presente, ma in linea di massima il cuore del film è sicuramente un altro – e ciò ovviamente lascia forse un tantino delusi -.
Suicide Tourist è infatti pressoché interamente all’insegna di un mesto esistenzialismo, concentrandosi principalmente sulle implicazioni emotive della scelta di sottoporsi a eutanasia – sebbene nel modo più civile e indolore possibile – sul soggetto e su chi lo circonda. A ciò si somma una peculiarità stilistica della cinematografia danese alta (amata da alcuni, da altri meno): essere incredibilmente lento e concettuoso. Avete presente Gertrud di Carl Theodor Dreyer? Se il soggetto trattato è (ovviamente) differente, il modo in cui viene affrontato è su per giù lo stesso. Ogni aspetto di Suicide Tourist è sottotono. La componente drammatica, sicuramente preponderante, è messa in scena in maniera quasi apatica. Lo stesso protagonista, affronta con un’inespressività estrema la tragedia che gli si para davanti, immotivata e inevitabile. Il suo rapporto con la moglie che gli sta amorevolmente vicino, i suoi slanci verso di lei, i momenti più bui e gli accessi di disperazione, tutto è approcciato in maniera quasi del tutto inespressiva.
La sensazione è ancor più forte, tra l’altro, in quelle sequenze in cui si cerca di stemperare un po’ la – implicita – pesantezza del discorso con dei momenti contraddistinti da venature di black humor. Che siano grotteschi tentativi di suicidio o battute ciniche, il risultato per qualche motivo non riesce. Sulla carta, la comicità nera ci sarebbe anche, ma quando prende forma su video è come se si spegnesse ogni verve, ogni stimolo, quasi si volesse mantenere costante il tono monocorde che domina l’insieme evitando slanci eccessivi.
E qui veniamo alla nota più dolente: la promessa tradita. Se come ritratto intimistico del travaglio profondo di un uomo, o come in un uomo in profonda meditazione sul suicidio assistito, Suicide Tourist potrebbe anche soddisfare. Qualora, però, si cerchi la suspense del thriller, questa è del tutto assente, a parte per un paio di scene e qualche tocco qua e là (dei ‘pazienti recalcitranti’, dei medici un po’ troppo insistenti ed ambigui, delle stanze e zone segrete…). Tale componente non è tuttavia portata a compimento in alcun modo, la minaccia vagheggiata non è altro che la ovvia conseguenza di ciò per cui gli ospiti stessi della struttura hanno firmato inizialmente.
L’unico problema è – semmai – l’impossibilità di avere ripensamenti, che a quanto pare non sono previsti (ma non si capisce bene per qual motivo)! Ciò costituisce, però, solamente una parentesi marginale (come i radi momenti psichedelici), che poco pesa nell’economia generale del discorso e che stride anzi un poco con il registro generale amaro e altamente patetico. E, comunque sia, è sostanzialmente un’altra delle possibili reazioni alla morte in quella fenomenologia del suicidio che rappresenta il vero centro di Suicide Tourist.
Di seguito trovate il trailer danese originale: