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Voto: 5.5/10 Titolo originale: The End , uscita: 06-12-2024. Regista: Joshua Oppenheimer.

The End: la recensione musical post-apocalittico di Joshua Oppenheimer

18/10/2025 recensione film di Gioia Majuna

Bunker, privilegio e colpa in un esperimento ambizioso quanto irregolare

tilda film the end

The End è il primo film di finzione di Joshua Oppenheimer e nasce da una domanda tanto semplice quanto perturbante: come suona la fine del mondo quando a cantarla sono i responsabili, diretti o indiretti, del disastro?

Venti anni dopo il collasso climatico, una famiglia si è rifugiata in un bunker scavato in una miniera di sale: Padre (un petroliere in pensione), Madre (ex ballerina), il Figlio nato sottoterra, un medico, una cuoca-confidente e un maggiordomo. Tele vuote di coscienza appese accanto a Renoir, un trenino che ricostruisce la Storia come piace a chi l’ha scritta, un memoir dettato al figlio per ripulire il passato: l’arte, il lusso e la disciplina servono a rimuovere la realtà. Quando alla porta arriva una giovane sopravvissuta dell’esterno, la bolla si incrina: affiorano scelte indicibili, esclusioni programmate, la menzogna di una memoria “benefica” che chiama progresso l’estrazione e fatalità il collasso.

Il cuore del film è il dispositivo: Oppenheimer trasforma il bunker in palcoscenico e affida ai personaggi arie interiori, duetti e cori che rendono visibile ciò che il dialogo tende a mascherare. L’azzardo è affascinante: le canzoni non cercano bellezza ma frizione, esitano, ripetono, inceppano la narrazione per far emergere la dissonanza tra forma impeccabile e coscienza marcia. Dove il film vibra davvero è nelle incrinature: la goffaggine tenera del Figlio che scopre l’alterità, il canto spezzato di Padre che tenta di nobilitare l’irrimediabile, i lampi di lucidità della Ragazza, unico baricentro etico in un groviglio di autoassoluzioni.

Le interpretazioni abbracciano il rischio: Michael Shannon regge numeri scabri con magnetismo asciutto, Tilda Swinton scolpisce una Madre che sublima la colpa in curatela estetica, George MacKay alterna ingenuità e furia, Moses Ingram porta un dolore senza retorica che mette a nudo l’edificio simbolico.

L’impianto scenico è ipnotico: grotte biancastre percorse da gallerie, pareti che respirano come stalattiti del tempo, luci che scivolano dal tepore domestico al gelo delle caverne secondo l’umore dei brani. Oppenheimer replica in chiave allegorica ciò che già indagava sul terreno del reale: l’auto-mitologia dei potenti, la riscrittura dell’orrore come gesto civilizzatore, la socialità chiusa che trasforma la sopravvivenza in privilegio.

Qui però la forma non sempre regge la promessa: la durata si dilata, alcune rivelazioni si assomigliano, la partitura insiste su figure retoriche che ripetono il concetto più che approfondirlo. L’allegoria di classe funziona, ma a tratti si fa troppo decifrabile; il canto, scelto come linguaggio dell’inconscio, a volte gira a vuoto, sfiorando la didascalia.

Eppure è proprio nella sua imperfezione che The End risulta unico: rifiuta l’ovvio ‘film-dossier’, rinuncia al compiacimento della catastrofe, preferisce guardare il potere chiuso in casa mentre si racconta favole per non sentire il rumore del fuori. L’arrivo dell’ospite non redime nessuno, non salva il futuro, non riscrive il giudizio: svela soltanto che sotto il marmo della buona educazione scorre una falda di decisioni inconfessabili.

L’ultimo sguardo verso l’ignoto non promette rinascite, ma una presa d’atto: il danno è fatto, e la forma-musica non consola, semmai inchioda. Ambizioso, diseguale, spesso ipnotico, The End è un esperimento che preferisce farsi domande scomode piuttosto che offrire l’ennesima morale di comodo. Non tutte le canzoni restano in testa; l’eco, però, resta nel petto.

Di seguito trovate il trailer doppiato in italiano di The End: