Horror & Thriller

The Rule of Jenny Pen: la recensione del film geriatrico con Lithgow e Rush

James Ashcroft dirige un thriller che affoga nel proprio sadismo ripetitivo senza mai trovare un vero senso

The Rule of Jenny Pen si presenta come un film apparentemente marginale, ambientato in una casa di riposo, popolata da un ex giudice paralizzato e da un uomo anziano che lo tormenta con una bambola da terapia.

Tuttavia, sotto la superficie di un thriller psicologico con accenti horror, si cela un’opera dissonante, spiazzante e profondamente divisiva che, nonostante le notevoli interpretazioni di Geoffrey Rush e John Lithgow, finisce per collassare sotto il peso delle proprie ambizioni tonali e narrative.

Diretto da James Ashcroft e tratto da un racconto breve di Owen Marshall, il film tenta di replicare le dinamiche oppressive e moralmente ambigue del precedente Coming Home in the Dark, ma lo fa con risultati più incerti, spingendo lo spettatore in un’esperienza disturbante che alterna umorismo nero, abusi espliciti e inquietudine surreale senza mai trovare un equilibrio coerente.

La premessa è potente e potenzialmente carica di sottotesti: Stefan Mortensen, giudice impietoso e orgoglioso, viene colpito da un ictus mentre pronuncia la sentenza in un processo per abusi sessuali, e viene ricoverato in una struttura per anziani dove perde progressivamente ogni autorità. Il suo persecutore, Dave Crealy, interpretato da un Lithgow demoniaco e animalesco, è un altro ospite che impone agli altri di sottomettersi a Jenny Pen, una bambola infantile priva di occhi, da lui trattata come un’entità viva e divina, da venerare leccandole il polso.

Da questo punto, la trama diventa un ciclo di umiliazioni e sadismi ripetuti, in cui Crealy domina incontrastato mentre lo staff ignora le suppliche di Stefan e le dinamiche di potere si rovesciano completamente.

La sceneggiatura di The Rule of Jenny Pen, firmata da Ashcroft e Eli Kent, fatica a sostenere il peso del lungo minutaggio, colpevole di reiterare situazioni senza evoluzione e di abbandonare ogni progressione tematica a favore di un’atmosfera torbida e claustrofobica.

I momenti più forti, come l’immagine di un paziente che si dà fuoco o gli ordini osceni impartiti da Lithgow attraverso la bambola, risultano più scioccanti che davvero significativi. Manca una costruzione dell’orrore vera e propria: l’effetto è quello di un prolungato supplizio senza catarsi.

Si potrebbe azzardare la definizione di “thriller psicologico alla Haneke”, ma la ripetitività dello script e la mancanza di sviluppo dei personaggi comprimari (gli infermieri sembrano ombre o complici involontari) trasformano The Rule of Jenny Pen in un esercizio sterile di angoscia.

Persino le allusioni a tematiche come l’abuso di potere, la senilità, il razzismo sistemico, o l’indifferenza istituzionale restano abbozzate, sacrificate in nome di un’estetica del disagio che privilegia l’impatto visivo e sonoro alla riflessione etica.

Eppure, Ashcroft e il direttore della fotografia Matt Henley riescono a evocare un senso di prigionia sensoriale: i rumori della casa di riposo diventano amplificati, le inquadrature spingono l’obiettivo contro i volti deformati dei protagonisti, e il contrasto tra la luce sterile del giorno e le tenebre che avvolgono i corridoi notturni è ben orchestrato.

Questi elementi formali, però, non bastano a giustificare la mancanza di una direzione narrativa chiara, che lascia lo spettatore con la sensazione che il film voglia denunciare le falle del sistema assistenziale ma finisca col ridurre tutto a un duello grottesco tra due caricature: il giudice arrogante e il giullare psicopatico.

Le performance di Rush e Lithgow sono ad ogni modo la linfa vitale di The Rule of Jenny Pen: il primo conferisce a Stefan una complessità tragica, alternando superbia e vulnerabilità, mentre l’altro abbraccia senza paura la mostruosità clownesca del suo ruolo, sfiorando più volte il ridicolo ma restando sempre inquietante.

Tuttavia, quando un film si appoggia in modo così totale su due attori, trascurando la coerenza interna e l’evoluzione della trama, il risultato è inevitabilmente fragile. Gli accenni a possibili spiegazioni soprannaturali, come l’aura enigmatica della bambola o le allucinazioni visive di Stefan, non trovano mai uno sbocco soddisfacente.

Persino la possibilità di una vendetta da parte di Crealy verso Stefan viene lasciata in sospeso, come se ogni risposta fosse meno interessante del semplice reiterarsi della sofferenza.

Il problema, non è allora tanto la crudezza quanto l’assenza di una progressione drammatica: The Rule of Jenny Pen diventa un horror della stagnazione, che punta tutto sul trauma, ma non lo elabora. Anche i momenti di surrealismo espressionista sembrano disconnessi, più sintomi di un delirio registico che veri strumenti di esplorazione psicologica.

Alla fine, The Rule of Jenny Pen non riesce né a spaventare né a denunciare con efficacia, limitandosi a scioccare con una crudezza fine a sé stessa. Nonostante l’atmosfera e le interpretazioni titaniche, si tratta di un’opera che fallisce nel trasformare il disagio in significato, e che spreca un soggetto promettente in favore di un’estetica del sadismo reiterato.

Un prodotto minore che ambisce alla profondità, ma si arena in un loop di soprusi che, anziché inquietare, logorano l’interesse dello spettatore.

Di seguito trovate il trailer internazionale di The Rule of Jenny Pen:

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Published by
Marco Tedesco