Il remake con Glen Powell è fedele a Stephen King ma smussa la satira e perde mordente nel finale
La nuova versione di L’uomo in fuga – The Running Man arriva con una promessa allettante: restituire all’omonimo romanzo di Stephen King, scritto sotto lo pseudonimo di Richard Bachman, la sua ossatura dura e amara, depurando l’iperbole fumettistica del film del 1987.
È un’intenzione nobile, ma il risultato si ferma spesso sulla soglia. Edgar Wright segue con rigore la storia di Ben Richards, un operaio disoccupato e disperato che, per salvare la figlia malata, accetta di partecipare al micidiale show televisivo The Running Man, dove i concorrenti devono sopravvivere per trenta giorni inseguiti da cacciatori armati e da una folla pronta a denunciarli in cambio di denaro. La premessa, tanto semplice quanto potente, torna al centro, ma la disperazione di fondo si smorza nella messa in scena.
Il film di Edgar Wright è più vicino alla pagina, più attento alla miseria di Richards e al meccanismo di un sistema che mescola televisione e potere. Eppure, mentre cerca di essere contemporaneo, scivola in un déjà vu: non perché l’idea sia invecchiata, ma perché la realtà l’ha superata. Quella che nel libro era un’incursione visionaria nel futuro, oggi è un riflesso del presente, dove l’indignazione è intrattenimento e la falsificazione delle immagini non scandalizza più. Il gioco al massacro orchestrato dal Network somiglia ormai troppo a ciò che vediamo quotidianamente.
Sul piano narrativo, l’aderenza al romanzo porta stimoli e limiti. L’idea del diario quotidiano e la caccia di trenta giorni generano tensione all’inizio, ma la struttura episodica si esaurisce presto. Le sequenze d’azione – inseguimenti contromano, sparatorie nei tunnel, discese da palazzi e salti tra esplosioni – sono ben costruite ma raramente sorprendono. Quando l’immagine si affida troppo agli effetti digitali, la fisicità si dissolve e la spettacolarità perde consistenza.
Il problema principale è il tono. A differenza di L’Implacabile con Arnold Schwarzenegger, che trovava nella caricatura la propria forza, qui la rabbia sociale è dichiarata ma stemperata da un’estetica controllata. Wright, regista dall’istinto musicale, alterna slanci visivi e momenti di stasi, senza mai decidere se abbracciare la crudeltà del romanzo o l’intrattenimento del blockbuster. Questa esitazione si riflette nel finale: invece di affondare il colpo, The Running Man retrocede verso un epilogo esplicativo, affidando a un video riassuntivo il compito di chiarire “cosa è davvero accaduto”. È un gesto coerente con la denuncia del sistema mediatico, ma sottrae al pubblico la catarsi del rischio e del dolore.
Sul versante attoriale, Glen Powell è magnetico e disciplinato, ma la sua eleganza fisica e il carisma pulito rendono più difficile credere al suo ruolo di proletario disperato. È un protagonista solido ma troppo levigato per incarnare il “qualsiasi uomo” del romanzo. Al contrario, Colman Domingo è perfetto nel ruolo del presentatore viscido e brillante, incarnazione di un potere che seduce mentre distrugge. Josh Brolin, nei panni del produttore Dan Killian, offre un antagonista misurato ma poco incisivo; attorno a lui si muovono figure secondarie promettenti – l’attivista sotterraneo, la compagna di fuga, il rivoluzionario improvvisato – che restano appena abbozzate.
Eppure, nei momenti in cui l’ingranaggio gira, The Running Man funziona davvero: le fughe notturne, i corridoi d’albergo sorvolati dalla macchina da presa, l’idea disturbante di una lotteria in cui chiunque può diventare carnefice se ripreso dalla telecamera giusta. In quei frammenti, l’azione diventa linguaggio e la satira ritrova il suo veleno. Ma il film non osa andare fino in fondo: spiega, giustifica, consola. E quando la corsa dovrebbe esplodere, finisce per rallentare.
Alla fine, questa nuova corsa di The Running Man cammina su un crinale incerto: più seria del cult ottantiano, più fedele al romanzo ma meno coraggiosa nel rischio. Intrattiene e a tratti abbaglia, ma rinuncia a bruciare davvero. Se il libro gridava disperazione e il film dell’87 la traduceva in farsa muscolare, Wright la regola e la addolcisce. Resta un’opera che parla di un mondo in cui la verità è spettacolo, ma teme di negare allo spettatore il conforto del lieto fine. E proprio lì, nel rifiuto del disincanto, The Running Man smette di correre.
Di seguito trovate il secondo trailer doppiato in italiano di The Running Man, nei nostri cinema dal 13 novembre: