Un film imperfetto ma potente, che segna la prova più umana e vulnerabile della carriera della star
The Smashing Machine è, prima di tutto, il film in cui Dwayne Johnson smette davvero di essere “The Rock” e tenta la trasformazione definitiva in attore drammatico. Benny Safdie gli costruisce addosso il corpo e le cicatrici di Mark Kerr, uno dei pionieri delle arti marziali miste tra anni Novanta e Duemila, e lo rinchiude in una gabbia fisica ed emotiva radicalmente diversa dall’eroismo granitico dei suoi blockbuster. Il risultato è un’opera affascinante, irregolare, che oscilla tra cinema del corpo e psicodramma irrisolto, tra realismo sporco e ripetizione quasi letterale del documentario originale su Kerr.
La trama copre un arco relativamente breve ma incandescente della vita del lottatore: dall’ascesa nei tornei di Brasile e Giappone, dove il soprannome “The Smashing Machine” diventa un dato di fatto, alla discesa nel vortice della dipendenza da antidolorifici che logora identità e carriera. Safdie racconta un uomo che vive di colpi: quelli che infligge, che lo galvanizzano come una droga, e quelli che subisce, che lo costringono ad anestetizzarsi pur di sopravvivere. Il paradosso centrale è evidente: Kerr è un colosso capace di demolire chiunque, ma fuori dall’ottagono è un gigante gentile, fragile, manipolabile, incapace di gestire la pressione. Johnson lavora proprio in questo spazio di contraddizione: dentro la gabbia animale, fuori bambino spaesato.
È forse la prima volta in cui l’attore accetta di mostrarsi fallibile, persino ridicolo nelle sue esplosioni di rabbia. Il volto gonfio, le orecchie deformate, i capelli finti, la fisicità volutamente eccessiva creano la sensazione di un uomo fuori proporzione rispetto a se stesso. Safdie, al suo primo film senza il fratello, porta con sé tutto il suo stile: macchina a mano irrequieta, zoom improvvisi, ambienti squallidi, corpi che scricchiolano. Il mondo di The Smashing Machine è fatto di palazzetti anonimi, spogliatoi claustrofobici, stanze d’albergo impersonali, case di periferia dove l’epica televisiva delle arti marziali si dissolve in litigi, overdose sfiorate, silenzi imbarazzati.
Il problema è che, rispetto ai lavori precedenti, qui la tensione non monta davvero. Il percorso di Kerr è costruito come una sequenza di cadute – farmaci, crisi, litigi, panico – che però non generano una spirale crescente. L’effetto è duplice: da un lato restituisce il carattere ciclico della dipendenza, dall’altro smorza l’urgenza drammaturgica, rendendo la seconda parte meno incisiva.
Uno dei meriti del film è evitare spiegazioni psicologiche prefabbricate: niente flashback rivelatori, niente genitori violenti, niente traumi infantili esposti in monologo. Safdie rifiuta lo schema del biopic sportivo classico e mantiene Kerr come un enigma, un uomo che vive di assoluti – vincere o essere nessuno – e che preferisce distruggersi piuttosto che accettare la propria vulnerabilità. È un approccio coerente con l’estetica documentaristica del film, ma rischia di lasciare lo spettatore in sospeso, privo di una vera chiave interpretativa.
Il confronto con il celebre documentario del 2002 è inevitabile. The Smashing Machine non si limita a ispirarsi: ricostruisce scene, dialoghi, inquadrature quasi identiche. Safdie sembra voler trasformare il vero in finzione, riproducendo la crudezza dell’originale attraverso un corpo hollywoodiano truccato per sembrare “più reale del reale”. A volte funziona, altre diventa una sorta di imitazione accurata ma meno incisiva dell’originale.
Eppure il film trova la sua voce nei dettagli: la preparazione maniacale dei frullati proteici, le discussioni sulla quantità di banana, i corpi rotti che vagano come normalità quotidiana, i promoter che scompaiono al momento del pagamento, il rispetto tra avversari che un minuto prima cercavano di annientarsi. È in questi momenti sospesi che Johnson mostra il lato più vulnerabile: quando chiede un analgesico con voce tremante, quando il panico lo assale se la dose ritarda, quando lo sguardo si svuota dopo una vittoria che non basta mai.
Sul piano sportivo, il film rifiuta ogni epica: gli incontri non sono mai gloriosi, il finale non è liberatorio, il duello con l’amico-rivale Mark Coleman è quasi anticlimatico. Safdie abbraccia un realismo disincantato: niente vittorie definitive, niente redenzioni totali, solo la sensazione che il corpo di Kerr abbia già pagato più del dovuto mentre il mondo intorno continua a girare e a guadagnare.
Il rischio era trasformare il film nella tipica vetrina da “legittimazione d’attore”. In parte ci gioca, ma trova un equilibrio proprio quando rinuncia alla retorica e segue Kerr nei suoi momenti meno spettacolari. Johnson ne esce con la prova più stratificata della carriera, abbastanza potente da cambiare la percezione del suo potenziale drammatico.
Nel complesso, The Smashing Machine è un film irregolare ma prezioso, più interessato alla fatica che alla gloria, alla dipendenza che alla vittoria. Come racconto del mondo delle MMA, funziona come ritratto crudo di un’epoca pre-industriale del settore, quando si combatteva quasi per sopravvivere. Come ritratto di Mark Kerr, lascia la sensazione di non aver scavato fino in fondo, ma conserva il valore di un’opera che rifiuta la celebrazione e segue, ostinatamente, un uomo che si frantuma contro i propri limiti pur di assaporare, anche solo per un istante, “la cosa più bella del mondo”: vincere.
Di seguito trovate il trailer di The Smashing Machine, nei cinema dal 19 novembre: