Horror & Thriller

We Bury The Dead: la recensione del film horror con Daisy Ridley

Zak Hilditch firma un'opera elegante ma fredda, intensa ma irrisolta

We Bury the Dead di Zak Hilditch (1922) è un film che scava nella zona grigia tra l’horror e il dramma psicologico, trasformando l’apocalisse zombie in una riflessione sulla perdita e sul bisogno di chiudere i conti con il passato. Lontano dagli eccessi del genere, il regista costruisce un racconto sospeso, fatto di silenzi, desolazione e piccoli scoppi di terrore, dove l’orrore non è tanto nei morti che si rialzano quanto nei vivi incapaci di lasciar andare.

La storia inizia con un esperimento militare statunitense finito male: un ordigno testato al largo della Tasmania provoca un impulso elettromagnetico che spegne all’istante il cervello di mezzo milione di persone. Poi, in modo inspiegabile, alcuni tornano in vita: non sono veri mostri, ma gusci vuoti, docili e confusi, “riaccesi” come macchine difettose. In questo scenario si muove Ava (Daisy Ridley), fisioterapista americana che si offre volontaria nelle squadre di recupero cadaveri, sperando di ritrovare il corpo del marito Mitch, scomparso durante l’incidente. Ad accompagnarla c’è Clay (Brenton Thwaites), un soldato ribelle che diventa alleato, specchio e talvolta minaccia.

Il viaggio di Ava è più interiore che geografico: il film segue la sua lenta discesa tra corpi senza nome e paesaggi devastati, alternando flashback del matrimonio fallito a incontri sempre più inquietanti. Hilditch mette in scena i morti viventi come presenze spaesanti, figure tremanti che sembrano uscire da un incubo di memoria più che da un contagio. Non aggrediscono subito, non ringhiano: il terrore nasce dalla presenza muta, dai loro movimenti spezzati, da quel suono di denti che graffiano l’aria. La fotografia di Steve Annis disegna un mondo pallido e spoglio, mentre il suono – tra colpi metallici, ronzii elettronici e il respiro di Daisy Ridley – guida la tensione più delle immagini.

L’idea di fondo, quella del ritorno dei morti come effetto collaterale della tecnologia e metafora della colpa, è potente. Ma il film non riesce sempre a sostenerla. Quando si concentra su Ava, sulla sua ostinazione e sulle sfumature del dolore, We Bury the Dead tocca momenti di grande intensità: la Ridley regge l’intero film con uno sguardo stanco e una fisicità fragile, trasmettendo un’umanità che va oltre l’archetipo dell’eroina del tipico survival horror. In coppia con Thwaites, la dinamica funziona: due anime rotte che cercano nei morti un modo per perdonarsi.

La seconda parte, però, cambia direzione. L’incontro con un soldato isolato (Mark Coles Smith), impazzito per la perdita della famiglia, devia la narrazione in una parentesi claustrofobica che sembra più un altro film: interessante come riflessione sull’elaborazione del lutto, ma in contrasto con il tono sommesso del resto dell’opera. Quando la storia ritorna su Ava, il ritmo si è già spezzato e l’emozione si è diluita.

Dal punto di vista del genere, Hilditch tenta di reinventare la grammatica zombie ma resta nel mezzo: le regole del contagio sono indefinite, la minaccia poco tangibile. Il regista preferisce il non detto, la paura sospesa, ma a lungo andare questa scelta riduce la tensione e affievolisce l’impatto. È come se la pellicola oscillasse tra due desideri: essere un horror atmosferico o un melodramma del rimorso. Ne esce un film bello da guardare, ma irrisolto, che lascia più malinconia che spavento.

Il finale prova a dare un senso mistico al viaggio di Ava, ma risulta troppo forzato, come un enigma aggiunto per stupire. Il percorso della protagonista trova comunque una forma di compimento: non la pace, ma la consapevolezza che ciò che cercava non era il corpo del marito, bensì la possibilità di continuare a vivere senza di lui.

Visivamente sontuoso, con un uso intrigante degli spazi e una colonna sonora ipnotica, We Bury the Dead è allora un’opera che vive di suggestioni più che di azione. Parla della morte come atto collettivo e della memoria come malattia contagiosa. È un zombie movie esistenziale, che preferisce la lentezza e la riflessione al sangue e ai colpi di scena. Può deludere chi cerca l’adrenalina, ma affascina chi è disposto ad ascoltare il silenzio tra un respiro e l’altro.

Alla fine, più che un film di paura, è un ritratto del dolore umano travestito da apocalisse: una storia che mostra come, anche tra i morti, ciò che resta a vagare non sono i corpi, ma i sentimenti irrisolti.

In attesa di capire quando lo vedremo in Italia (negli USA il 2 gennaio 2026), di seguito trovate il full trailer internazionale di We Bury The Dead:

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Published by
William Maga