Horror & Thriller

Recensione story: Wolfman di Joe Johnstone (2010)

Benicio Del Toro, Anthony Hopkins ed Emily Blunt erano al centro di un remake elegante ma pasticciato

Il remake di Wolfman del 2010 porta con sé una storia produttiva travagliata che sembra riflettersi in ogni sua inquadratura. Dopo l’abbandono di Mark Romanek per “divergenze creative”, Universal affida la regia a Joe Johnston, costretto a rimaneggiare sceneggiatura e set in tempi strettissimi. Ne risulta un film che tenta di rispettare la classicità gotica del mito, ma che spesso inciampa in incoerenze e soluzioni posticce.

La trama segue Lawrence Talbot (Benicio Del Toro), attore americano che torna nella tenuta di famiglia in Inghilterra dopo la brutale morte del fratello. Qui, in un’atmosfera di cupo romanticismo ottocentesco, Lawrence scopre un segreto che lo trascinerà nella maledizione del lupo mannaro, tra sangue, visioni e un destino inevitabile.

Il film oscilla continuamente: da un lato c’è la ricostruzione d’epoca del 1891, con manieri decadenti, brughiere avvolte nella nebbia e la perenne minaccia della luna piena; dall’altro c’è una ricerca moderna di spettacolarità che però raramente si armonizza con il resto. L’effetto è quello di un’opera divisa tra l’eco del gotico alla Sleepy Hollow e l’estetica di un blockbuster che non trova mai il proprio respiro.

Del Toro, scelto per il suo magnetismo, appare a tratti spaesato. Il suo Lawrence non trasmette davvero la tragedia interiore che Lon Chaney Jr. incarnava nell’originale del 1941: sembra più vittima di stanchezza che di maledizione. Anthony Hopkins, nel ruolo del patriarca Sir John, alterna momenti intensi a derive caricaturali, incapace di scegliere tra solennità e compiacimento. Emily Blunt resta intrappolata in un personaggio sottoscritto, senza spazio per un arco drammatico credibile. L’unico a sembrare davvero a proprio agio è Hugo Weaving, che infonde ritmo e ironia nella sua caccia al mostro.

Sul piano visivo, non mancano suggestioni: le scenografie restituiscono con efficacia il fascino delle rovine, i chiaroscuri fotografici valorizzano il senso di decadenza, e i paesaggi brumosi evocano l’essenza gotica. Tuttavia, il vero tallone d’Achille è negli effetti digitali. Le trasformazioni del lupo mannaro appaiono leggere e artificiose, prive di quella fisicità che avrebbe dovuto comunicare terrore e peso. Laddove Rick Baker aveva fatto scuola con le prostetiche artigianali, qui domina una CGI che tradisce l’impianto estetico, rendendo la creatura più simile a un’animazione priva di carne.

Il film cerca di compensare con abbondanti dosi di sangue e gore, ma queste sequenze finiscono per apparire come riempitivi piuttosto che autentici momenti di tensione. Manca il respiro della tragedia, manca la capacità di scavare nei silenzi e nella psicologia del protagonista, riducendo Lawrence Talbot a un personaggio bidimensionale che non trova mai la sua voce interiore.

Wolfman fallisce proprio laddove l’originale aveva conquistato: nel costruire pathos e umanità dentro il mito. Se George Waggner e Curt Siodmak nel 1941 avevano creato un’icona tragica, divisa tra colpa e destino, Johnston firma un film elegante nell’atmosfera ma goffo nei dettagli, ambizioso ma privo di cuore.

Il risultato non è un disastro totale – soprattutto se paragonato a derive come Van Helsing – ma resta un ibrido irrisolto, incapace di onorare fino in fondo l’eredità del suo mostro più malinconico. Wolfman è dunque un’occasione mancata: un film che prometteva un ritorno al mito universale e si perde invece tra cliché, CGI invadente e un’anima che non riesce mai davvero a ululare.

Di seguito trovate una scena in italiano di Wolfman:

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