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Voto: 5/10 Titolo originale: Black Rabbit , uscita: 18-09-2025. Stagioni: 1.

Black Rabbit: la recensione della miniserie crime con Law e Bateman (su Netflix)

21/09/2025 recensione serie tv di Gioia Majuna

Un prodotto cupo e ambizioso, ma che inciampa tra antieroi stereotipati e ritmo lento

Black Rabbit è la classica promessa da grande serie Netflix che si incrina man mano che si guarda. L’idea è forte: due fratelli, Jake e Vince Friedken, legati da un passato condiviso e da una codependenza corrosiva, travolti da debiti, ricatti e compromessi morali nel ventre di New York. La miniserie in 8 episodi apre con un colpo a effetto nel ristorante Black Rabbit e poi riavvolge di un mese, incastrando lo spettatore nel meccanismo del destino annunciato. Sulla carta, il dispositivo funziona; sullo schermo, l’attenzione si sfiletta perché la scrittura ti chiede di investire emotivamente in personaggi che faticano a guadagnarsi quell’investimento.

Il nodo tematico più interessante è il rapporto tra antieroi e pubblico. Dopo una stagione televisiva dominata da figure come Tony Soprano e Walter White, il rischio di ripetere la formula senza la necessaria ambiguità è altissimo. Qui accade spesso: le azioni dei Friedken non rivelano strati morali imprevisti, ma oscillano tra autogiustificazione e vittimismo, fino a sfiorare la caricatura. L’idea del “fratello deviante” e del “fratello rispettabile” che cade a sua volta è pertinente; manca però quel lavoro di scavo che trasformi la disgrazia in tragedia e non in semplice catena di decisioni sbagliate. Ne consegue una sensazione di “miserabilismo” seriale: dolore, umiliazioni e violenza scorrono, ma raramente depositano significato.

Sul piano del cast, la coppia Jude Law/Jason Bateman accende attese legittime. Law costruisce un Jake nervoso, in cui il fascino di facciata si incrina in frustrazione; quando la regia gli concede primi piani e luce piena, la ferita diventa visibile. Bateman, invece, porta con sé tic e posture che funzionavano in altre parti, ma qui dovrebbero farsi carisma scomposto e pericolo istintivo: il risultato resta spesso monocorde. Il loro duello verbale è credibile come dinamica fraterna, meno come motore drammatico di otto ore. Spicca, per intensità e misura, la presenza minacciosa e dolente del creditore Joe Mancuso: ogni volta che compare, la serie trova un centro emotivo che altrove le sfugge.

black rabbit serie 2025La confezione è curata, ma la forma diventa talvolta un travestimento. Fotografia cupa, grana sporca, luci basse, inquadrature con ampi vuoti: tutto promette un realismo urbano febbrile. Tuttavia la messa in scena attinge a estetiche riconoscibili senza assimilarle davvero, e il mondo dei locali di lusso e dell’alta ristorazione appare più come cartolina che come ecosistema.

Anche il montaggio dei primi episodi tende a dilatare: durate generose, ritorni temporali a ridosso dei picchi di tensione, sottotrame che rimbalzano alla stessa intensità fino a consumarsi. Paradossalmente, quando la serie esce dal buio e corre alla luce del giorno negli episodi finali, l’energia cambia: l’azione si compatta, gli spazi di Brooklyn respirano, la tensione diventa fisica e leggibile. In quel tratto la regia trova ritmo, chiarezza e respiro, come se Black Rabbit si ricordasse all’improvviso che oltre a premere deve anche raccontare.

C’è poi il tema dell’ambientazione morale. La serie innesta questioni attuali – abusi sul lavoro, potere economico, impunità – ma spesso le tratta come detonatori narrativi più che come ferite da indagare. Ne risente la coralità: il ristorante pullula di figure potenzialmente interessanti, però ridotte a tratti unici (l’amico fidato, la chef brillante, la compagna combattuta, la barista fragile). La città, pur filmata con accessi prestigiosi, resta scenario; i personaggi che la abitano, salvo rare eccezioni, non ci vivono davvero dentro. È la differenza tra usare New York e sentirla pulsare sotto i piedi.

Dal punto di vista della struttura, il “balzo in avanti” iniziale promette un mosaico di indizi che dovrebbero ricomporsi con precisione. Alcune tessere vanno a posto, altre risultano palesi troppo presto, altre ancora rimangono appese. La ripetizione dei conflitti tra i fratelli – soldi, lealtà, bugie – non accumula senso ma stanchezza; i colpi di scena sembrano spesso derivare da una necessità di rilanciare la partita più che da una logica interna ai personaggi. È qui che si misura la distanza tra il semplice “far succedere cose” e il costruire pressione drammatica: nel primo caso ti distrai a cercare l’ennesimo dito mozzato, nel secondo ti ritrovi a trattenere il respiro senza accorgertene.

Eppure, nonostante gli squilibri, Black Rabbit possiede isole di valore: la resa di certi luoghi, il suono calibrato di esterni difficili, la fisicità di alcune fughe, il breve ma incisivo lavorìo sui sensi di colpa. Basterebbero a farne una buona serie? Non da sole. Serviva un cuore più caldo sotto la crosta scura: ironia, pietà, contraddizioni vere. Serviva che la parabola degli antieroi smettesse di chiedere indulgenza e osasse, piuttosto, inchiodare i Friedken alle loro responsabilità senza cercare indulgenze in extremis.

In sintesi, Black Rabbit è una miniserie ambiziosa e visivamente curata che prende di petto il dramma familiare nel crimine, ma confonde intensità con profondità e cupezza con complessità. Gli ultimi due episodi mostrano cosa avrebbe potuto essere; il resto ribadisce perché non lo è diventata. Per chi cerca una recensione: trama e cast promettono, regia e fotografia seducono, la scrittura non regge il peso dell’aspirazione.

Di seguito trovate il trailer doppiato in italiano di Black Rabbit, nel catalogo di Netflix dal 18 settembre:

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