Il regista Joe Berlinger racconta la figura del più famoso serial killer americano con documenti e registrazioni inedite, camminando sul sottile filo della fascinazione per il mostro senza scavare quanto auspicabile nella sua perversa mente
Il popolo del web, in particolare quello femminile, è tornato in questi giorni letteralmente a impazzire per la figura del famigerato serial killer Ted Bundy, giustiziato sulla sedia elettrica 24 gennaio del 1989 presso la Florida State Prison. Esattamente 30 anni dopo infatti, nella stessa data, Netflix ha deciso di mettere a catalogo la docu-serie in 4 parti intitolata Conversazioni con un killer: Il caso Bundy (Conversations with a Killer: The Ted Bundy Tapes).
Questa la premessa ‘pubblicitaria’ a al prodotto diretto da Joe Berlinger, vero e proprio documentario a puntate sul lavoro che i giornalisti Stephen Michaud e Hugh Aynesworth hanno svolto su Ted Bundy nel 1980 mentre l’uomo era rinchiuso nel braccio della morte, raccogliendo 100 ore di conversazioni inedite registrate, immagini e video. Dettagli crudi e descrizioni agghiaccianti fluiscono durante il racconto, un viaggio nell’orrore di una mente contorta – capace di ispirare il Buffalo Bill di Il silenzio degli innocenti – che Netflix stessa ha consigliato di non guardare da soli (altra mossa di marketing?).
La storia ci racconta che a Ted Bundy – incarnazione di quanto di più malvagio ci sia nell’umanità – vennero contestati una trentina di omicidi di giovani donne, ma non è affatto improbabile che siano stati molte di più, con la maggior parte dei delitti concentrati nella seconda metà degli anni ’70 (per la precisione tra il 1974 e il 1978). Le vittime erano per lo più studentesse universitarie che venivano abbordate con una scusa, una tecnica letale cui seguiva il sequestro e la brutale uccisione della malcapitata. Ted Bundy non confesserà nessuno dei delitti all’inizio, anzi parlerà in terza persona come se ci fossero delle altre personalità dentro di lui che li abbiano messi in pratica, lasciandolo come mero spettatore impotente. Alla fine però, a pochi giorni dalla condanna a morte, l’uomo dichiarerà, per lo sconcerto di tutti, che oltre ad aver decapitato 12 donne per poterne conservare le teste in casa, era solito anche tornare sulle scene del delitto per consumare rapporti sessuali coi cadaveri in stato di decomposizione.
Ma tutti questi approfondimenti che il regista sapientemente ha analizzato, non vengono colti pienamente nella serie. Chiunque la approcciasse con l’idea che offra uno squarcio dentro alla mente contorta di Ted Bundy, molto probabilmente rimarrà deluso. Le conversazioni che vengono usate con parsimonia nel corso delle oltre 4 ore (che, come intuibile, coprono solo una minima parte delle registrazioni purtroppo) non sono infatti vere e proprie conversazioni, quanto dei monologhi, e, nonostante abbiano un ruolo prominente, non risultano così profonde – o complete – come vogliono apparire. Profondo e perversamente affascinante invece era proprio lui, il soggetto al centro di tutto, un uomo piacevole alla vista e apparentemente innocuo, come ben si evince dalle immagini che contrastano l’infamante etichetta affibbiatagli. Ted Bundy era fin troppo felice di discutere della sua infanzia, mentre si nota come fosse molto meno desideroso di parlare dei suoi crimini. Così, il giornalista decise di mettere a punto una tattica, convincendolo a parlare degli omicidi in terza persona, come fosse semplicemente uno spettatore. Da qui il documentario prende forma, la voce stessa del killer cambia drasticamente di tono e inizia ad emergere lentamente il Ted Bundy stupratore ed assassino.
Nei primi momenti del documentario, ad esempio, ci viene mostrato un Theodore Robert Bundy cresciuto in una famiglia dai saldi principi morali e cristiani, esempio di chi è destinato a diventare il ‘perfetto americano’ sia nel lavoro, sia come uomo (studiò legge e si candidò nelle fila del Partito Repubblicano). Questo doveva appunto credere il mondo, una bipolarità conclamata, da un parte la normalità della stabilità sociale e dall’altra l’annientamento dell’essere, l’assenza della minima empatia verso il prossimo. Una ‘convivenza’ difficile la sua, che in un contesto come quello degli USA degli anni ’70, vivace e aperto, trovò un altro canale per liberare i brutali impeti che pulsavano per uscire fuori. Fin da subito insomma, Ted Bundy avrebbe proiettato intorno la sua natura subdola, costruendo un quadretto aulico della sua educazione e di una giovinezza praticamente idilliaca, che come ben sappiamo, celavano però un’anima nera, fatta di sociopatia e manipolazione della verità.
La docu-serie non è comunque priva di meriti sia chiaro. E’ curata, tenendo conto di tutto il repertorio che costituisce una parte importante della narrazione. Le foto originali dell’omicida seriale aumentano il disgusto e la tensione, assieme alla colonna sonora elettronica che il musicista Justin Melland utilizza per immergere il pubblico nelle sonorità tipiche dell’epoca. Apprezzabile, ma derivativa, è la scelta visiva di ricorrere a due diversi tipi di immagini per fornire altrettante ‘prospettive separate’, ovvero alto contrasto per le testimonianze maschili e forte illuminazione per i testimoni e specialmente le donne.
Tirando le somme, questa docu-serie trasporta sul piccolo schermo la curiosità e la fascinazione verso un personaggio tanto temuto quanto intrigante e che ancora oggi riesce a far parlare di sé, cercando di inquadrarlo all’interno di un contesto sociale che non seppe individuarne la malvagità in tempo. E’ una storia rivelatrice di un mostro avvolto nel fascino e nel carisma, che punta forse più sul sensazionalismo che sullo scavare davvero nella documentazione fattuale di quanto successo.
Di seguito il trailer internazionale (con sottotitoli in italiano) di Conversazioni con un killer: Il caso Bundy, nel catalogo Netflix dal 24 gennaio: