Stefano Sollima racconta la pista sarda come “Rashomon” seriale, dando centralità a Barbara Locci tra etica dello sguardo, atmosfera e qualche limite drammaturgico
Il Mostro di Stefano Sollima è una miniserie che sceglie la via più scivolosa e insieme più fertile: raccontare il caso più ingovernabile della cronaca nera italiana senza pretendere di risolverlo. In 4 episodi asciutti e tesi, la serie Netflix abbandona la pista più popolare e si inoltra nella cosiddetta pista sarda, costruendo un mosaico di versioni inconciliabili e di narratori inattendibili.
Non è un semplice true crime, ma un esercizio di messa in scena della memoria: frammentaria, contraddittoria, necessariamente parziale. È anche, però, un racconto che divide, perché la stessa coerenza d’intenti che lo rende affascinante è ciò che, talvolta, lo rende sfuggente.
La trama, per quanto possibile, si dispone attorno a un nocciolo: il duplice omicidio del 1968 di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco a Signa, che anni dopo lega balisticamente i delitti del Mostro. Ogni episodio sposta il fuoco su un sospettato diverso – Stefano Mele, Francesco Vinci, Giovanni Mele, Salvatore Vinci – ribaltando di volta in volta la prospettiva e riscrivendo micro-dettagli di scene chiave.
Ne risulta un “Rashomon” seriale: porte che si aprono e si chiudono in modo diverso, tragitti che cambiano, parole che slittano. Il montaggio usa ripetizione e variazione come grammatica del dubbio: non per confondere lo spettatore, ma per costringerlo a vedere il caso come una stratificazione di desideri, menzogne, omissioni.
Sul piano stilistico, Sollima rallenta il respiro. Chi ricorda la furia cinetica di Romanzo Criminale o Gomorra troverà qui una regia che sa “aspettare”: camera discreta, movimenti minimi, tempi lunghi che fanno nascere la tensione dagli spazi e dai silenzi. L’aderenza ai verbali, soprattutto nei dialoghi cruciali, produce un’intonazione “strana”, non cinematografica in senso classico: frasi irregolari, cadenze non levigate, come se la lingua rifiutasse la spettacolarità. È una scelta coerente con l’impianto, ma non sempre amica della fruizione: la precisione documentaria obbliga spesso a raccontare per ellissi, delegando a sguardi, ambienti e micro-gesti ciò che la parola non può o non vuole dire.
La fotografia cava neri e grigi da interni spogli, case poverissime, cortili scavati nel fango: uno squallore radicale che è anche politica dell’immagine. In questo paesaggio, i rari cromatismi (un abito appena comprato, una tenda bucata dagli spari) funzionano come ferite nella retina. La musica lavora per contrappunti: canzoni popolari trasformate in presagi, classici italiani che diventano sinistri, improvvise citazioni filmiche che scartano il senso – l’eco del monologo di Blade Runner prima di un’esecuzione – per parlare dell’immaginario di un paese oltre che del suo buio.
Dove la serie convince di più è nella creazione di atmosfera e nella gestione del punto di vista. L’omicidio della coppia tedesca, il camper crivellato, i fari che accendono nel buio decine di voyeur nascosti tra le fratte: sono immagini che condensano una poetica del fuori-campo, dove il mostro è sempre “dietro” qualcosa, forse dentro qualcuno. L’ultimo delitto agli Scopeti, la traiettoria dei proiettili che fioriscono sulla tela, l’orrore delle escissioni lasciate in parte fuori quadro: qui la regia rivendica un’etica dello sguardo, non negando l’atrocità ma impedendole di farsi compiacimento.
Dove, invece, Il Mostro paga pedaggi è nella costruzione drammaturgica complessiva. Lo spostamento continuo di focalizzazione, la marginalità programmatica dell’indagine ufficiale (magistrati e inquirenti come comparse impotenti), l’assenza di un vero protagonista empatico – che poteva essere la stessa Locci o il figlio Natalino – generano un senso di rarefazione emotiva.
C’è poi il nodo della “politica” del racconto. L’opzione di leggere la pista sarda come trama di maschilità violente – padri, mariti, amanti, fratelli che comprimono e puniscono – è potente e contemporanea, ma a tratti didascalica: alcune linee di dialogo sembrano voler “spiegare” ciò che l’immagine già mostra. La serie, insomma, è più forte quando lascia che le case parlino, che gli sguardi mentano, che le versioni si contraddicano; più fragile quando cerca una tesi. Eppure quella fragilità è l’altra faccia del coraggio: prendere posizione senza chiudere il senso, mettere in scena l’Italia che fu – patriarcale, provinciale, intrisa di controllo sociale – senza consegnarle l’alibi del folklore.
Nel confronto con altri racconti del Mostro, questa versione rinuncia al magnetismo del processo spettacolo, allo “show” paccianesco, all’idea di un colpevole da incarnare. È una rinuncia che libera e spiazza. Libera perché toglie al pubblico l’illusione della soluzione; spiazza perché, senza un centro carismatico, richiede di abitare i margini, le voci basse, i dettagli. Chi cerca il brivido del whodunit potrebbe restare frustrato; chi accetta l’ipotesi che il vero tema sia ciò che rende possibile il male – una società, un’epoca, uno sguardo – troverà un’esperienza compatta, spesso magnetica.
Il Mostro è dunque una miniserie di straordinaria coerenza formale e notevole ambizione etica, capace di reinventare il true crime italiano come teatro delle versioni. È anche un’opera che paga lo scotto della sua stessa lucidità: a forza di contenere, asciugare, sottrarre, rischia di raffreddare il pathos e di lasciare alcuni nodi tematici nel limbo tra intuizione e tesi. Resta, però, l’impressione di un lavoro necessario: non per risolvere, ma per ricordare; non per mostrare il mostro, ma per farci domandare dove e come continuiamo a fabbricarlo.
Di seguito trovate il full trailer di Il Mostro, a catalogo dal 22 ottobre: