Una trasposizione elegante ma tiepida, che ricicla i cliché del Re del Brivido senza ritrovare la sua vera inquietudine
L’Istituto (The Institute) è l’ennesima prova che tra Stephen King e la serialità c’è una distanza difficilissima da colmare: non basta riprodurre i cliché, serve quell’elettricità sottopelle che nei romanzi trasforma l’ordinario in straordinario. L’adattamento in 8 episodi per MGM+ (e Prime Video) sviluppato da Benjamin Cavell e diretto da Jack Bender parte con il manuale in mano e finisce per consegnare una storia all’acqua di rose: levigata, talvolta coinvolgente, raramente necessaria.
La premessa è potente e classicamente kinghiana – bambini con talenti di telecinesi (TK) / telepatia (TP) sottratti alle famiglie e rinchiusi in un complesso segreto nel Maine, la famigerata distinzione tra facciata e retro, una burocrazia gelida che parla per slogan (punture e puntini …) – ma la messa in scena smorza, più che accendere, la miccia.
La scelta strutturale di intersecare da subito due linee narrative, Luke Ellis (Joe Freeman) dietro le porte d’acciaio dell’istituto e l’ex poliziotto Tim Jamieson (Ben Barnes) che pattuglia la cittadina come guardia nottura, toglie ossigeno proprio all’arco più interessante. Nel libro la lunga immersione nella prigionia preparava con tensione l’incontro tra i mondi; a livello seriale il ping-pong spezza il ritmo e, ogni volta che la regia trova un minimo di abbandono claustrofobico nelle stanze verde-grigie, una passeggiata notturna di Tim riporta tutto alla neutralità.
Sul versante “adattamento per la TV”, l’analisi della macchina rimane sempre a livello di protocollo. Eppure la materia era ricchissima: King scrive di bambini trasformati in risorse strategiche, di genitori che non vedono o non vogliono vedere, di paesi che convivono con il mostro ai margini del bosco.
La serie accenna a tutte queste piste – dall’eco di politiche di separazione familiare al tema dei minori scomparsi – ma le tratta come fondali. L’etica si fa binaria: bene contro male, obbedire o ribellarsi. La conseguenza è che l’orrore scivola dalla testa allo stomaco: più sofferenza che paura.
Vedere ragazzini drogati, marchiati, immobilizzati è disturbante; ripeterlo senza progressione, senza ambiguità e senza idee visive che traducano la violenza in significato, diventa stancante. L’iperrealismo economico degli effetti – un rigagnolo d’acqua che sale in verticale, una padella che vibra al ristorante – restituisce poteri “minori” coerenti con l’impianto low-key, ma non costruisce stupore. “Telecinesi” e “telepatia” restano etichette; la serie non trova mai il modo di farci sentire cosa significa portarne il peso.
Quando L’Istituto funziona, lo fa a bassa intensità. Joe Freeman ha il giusto sguardo analitico e ferito, capace di trasformare Luke in un osservatore che misura l’ambiente come un rebus morale; qualche dettaglio di quotidiano (la polvere sul corrimano, il tremito prima di eseguire un compito) apre fenditure di realtà. Ma manca ciò che in King è fondamentale: la costruzione del gruppo.
Kalisha (Simone Miller), Nicky (Fionn Laird), Avery (Viggo Hanvelt) restano volti, non legami; e senza legami la catarsi dell’evasione o del contrattacco perde peso specifico. Anche la fotografia austera, i set 360° e la palette malata che vorrebbero suggerire un programma governativo sottofinanziato finiscono per visualizzare più i limiti produttivi che l’idea di mondo.
Il confronto con altri adattamenti recenti chiarisce l’impasse: quando la regia abita davvero la soglia tra quotidiano e perturbante, il “Maine mentale” di King prende vita; qui l’estetica da installazione clinica congela l’empatia. Persino i pochi momenti di “genere” – granate, blackout, fughe nei corridoi – sono coreografati in modo funzionale, senza un’invenzione che resti negli occhi. E il finale, che rinvia parte delle risposte a una possibile stagione 2, conferma la sensazione di “serialità amministrata”: si spuntano caselle, non si accendono ossessioni.
Eppure gli elementi per un commento positivo c’erano: l’ordinario che si incrina (la padella che vola nel ristorante), la provincia che convive con il bunker, la lingua di King che sa essere simultaneamente infantile e apocalittica. Perché allora l’insieme non decolla? Perché l’adattamento sceglie sempre la via mediana: mai abbastanza allegorico da diventare parabola, mai abbastanza sensoriale da diventare esperienza, mai abbastanza psicologico da diventare studio di personaggi. Nel tentativo di restare “apolitico” e accessibile, finisce per sembrare prudente; e la prudenza è l’opposto dell’energia kinghiana.
Insomma, L’Istituto è un adattamento elegante ma tiepido, che ricicla il vocabolario di Stephen King senza la sua febbre. Ben Barnes e Mary-Louise Parker danno decoro a ruoli scritti per sottrazione, Joe Freeman regge il baricentro, ma l’insieme rimane più “procedura di contenimento” che brivido narrativo.
Per chi cerca un adattamento capace di riscrivere quell’immaginario, qui troverà un esercizio corretto e poco più; per chi si accontenta di una maratona ordinata di telecinesi, telepatia e istituti nel bosco, l’operazione è passabile. La lezione che resta, paradossale e utile per qualsiasi altro futuro tentativo: senza rischio non c’è magia, e senza magia il King-verse si riduce a un inventario di segni.
Di seguito trovate il trailer internazionale di L’Istituto, a catalogo su Prima Video: