Un prequel che reinventa la saga e mette l’umanità sotto processo
Alien: Pianeta Terra (Alien: Earth) è il più convincente atto di rifondazione nell’universo degli Xenomorfi dai tempi di James Cameron: un prequel ambientato nel 2120 che sposta l’epicentro dell’orrore sulla Terra e, soprattutto, dentro l’anima delle corporation. Un marchio conteso che, tra horror, fantascienza e azione, ha fissato quasi cinquant’anni fa uno standard impossibile da superare e che, dopo anni di alti e bassi e sette anni di assenza cinematografica, torna in forma smagliante. Come la rinascita recente di Predator, segna il momento di chiedersi cosa vogliono davvero i fan e cosa significhi oggi Alien per il pubblico.
Noah Hawley non fa fan service; orchestra invece un’operazione di “remix autoriale” in cui l’estetica sudicia e claustrofobica di Ridley Scott convive con la propulsione bellica di Aliens, la curiosità metafisica di Prometheus/Covenant e un’inattesa cornice letteraria: Peter Pan. Hawley dimostra ancora una volta la sua abilità nel prendere proprietà con un’identità forte – come Fargo o Legion – e marchiarle con la propria impronta, restando fedele all’essenza. Qui è come se Alien incontrasse Blade Runner e Terminator, ma filtrato attraverso la tensione di Succession, con la guerra tra corporation al centro.
Il risultato è una serie FX/Disney+ che parla ai fan, ma urla al presente: ipercapitalismo, IA, post-umanesimo, biopolitica del corpo. La domanda non è “cosa ci farà il mostro”, ma “cosa siamo disposti a farci l’un l’altro per un dividendo, un brevetto, l’immortalità”. Le prime puntate sono anche un racconto sulla persistenza della memoria, usata come bussola morale in un universo in rovina: in Alien la nostalgia non è vezzo, ma ancora di salvezza.
Il mondo è governato dalle Cinque (Weyland-Yutani, Prodigy, Threshold, Dynamic, Lynch): niente governi, solo consigli d’amministrazione. La collisione fra l’astronave Maginot e la megalopoli di Prodigy innesca la trama, ma il detonatore tematico è più radicale: Boy Kavalier, miliardario geniale e infantile, ha creato gli “ibridi”, corpi sintetici che ospitano coscienze di bambini terminali. Non è la guerra a liberare lo Xenomorfo, ma l’espionage industriale: un colpo basso aziendale che sposta la minaccia dall’arena militare a quella finanziaria.
Wendy (Sydney Chandler) è la prima, seguita da Slightly, Tootles, Smee, Curly, Nibs: Lost Boys in esoscheletri quasi indistruttibili. Il suo mentore/sorvegliante è Kirsh (Timothy Olyphant), sintetico dallo stoicismo tagliente; l’antagonista mobile è Morrow (Babou Ceesay), cyborg sopravvissuto al disastro che tratta la biologia aliena come un’asset class. Intorno a loro, scienziati come Dame Sylvia e Arthur, e il fratello umano di Wendy, Hermit, che funziona da bussola morale mentre il quadro etico sprofonda. Il legame Wendy–Hermit, alimentato dall’assenza e dal desiderio di riconnessione, è il cuore emotivo che umanizza una storia dominata da apparati senz’anima.
Le location tropicali (la Prodigy City sorta nell’ex Thailandia, la Neverland di laboratorio) aprono una nuova tavolozza rispetto ai corridoi siderali, con giungle e condomini-alveare che moltiplicano possibilità tattiche e trappole.
La serie è più generosa d’azione xenomorfa delle ultime uscite cinematografiche, e insieme introduce creature inedite – su tutte “L’Occhio”, un incubo tentacolare che parassita le orbite – senza mai scordare che l’orrore vero è umano. Quando l’ibridazione coscienza-sintetico diventa prodotto, i bambini immortali di Prodigy sono sia promessa sia minaccia: corpi adulti, menti infantili, forza devastante, innocenza programmata.
Wendy incarna il cuore concettuale di Alien: Pianeta Terra: né carne né algoritmo, né bambina né donna, un soggetto liminale che costringe a ripensare cosa intendiamo per “umano”. La Chandler le dà un doppio registro notevole: leggerezza quasi piumata nelle prime uscite, risolutezza predatoria man mano che l’educazione sentimentale lascia spazio all’istinto di sopravvivenza e alla consapevolezza del proprio statuto. Il “dare la vita” agli ibridi, ripreso in un piano-sequenza magistrale, è al tempo stesso miracolo e atto di hybris.
Kirsh è invece il miglior contributo alla stirpe androide dai tempi di David: non il refrigerio del sociopatico poetico, ma un sarcasmo asciutto che esprime un’etica alternativa. È convinto che essere macchina sia superiore a essere uomo, e la serie – con intelligenza – lo rende talvolta persuasivo. Sul versante umano-troppo-umano, Boy Kavalier è il ritratto più caustico del tech bro onnipotente: piglio da eterno dodicenne, capriccio che diventa policy, “finders keepers” come dottrina geopolitica. Tra lui e la Yutani si materializza una guerra fredda in cui gli xenomorfi sono merce strategica. A ricordarci perché la saga funziona da decenni c’è la sua tesi eterna: il vero mostro è il profitto che trita scrupoli.
Dove la regia abbraccia il canone – luci strobo, catene pendule, condotti d’aerazione, acido che fuma – la scrittura allarga il perimetro. Un episodio centrale, quasi stand-alone, ricostruisce la parabola della Maginot con rigore da mini-film e tensione chirurgica; altrove, gli “overture” fungono da chiave sinfonica che lega filosofia e splatter.
Non tutto è impeccabile: l’avvio a bruciapelo affascina, ma tra il secondo e il terzo episodio il rallentamento da slow-burn rischia di sospendere personaggi e posta in gioco prima del “click” tonale. E in alcune sequenze d’azione il xenomorfo, ripreso in campi medi e ralenti, perde un filo della sua “eleganza predatoria”; la coreografia delle uccisioni non è sempre coerente, e a tratti il mostro viene retrocesso a contorno dell’allegoria corporate-IA. È un prezzo minore per l’ambizione complessiva, ma resta percepibile.
L’ibrido coscienza-synth è l’ultimo stadio di una linea che va da Ash a Bishop a David: proprietà senzienti che rivendicano un’ontologia. Seconda: l’iper-corporazione al posto dello Stato. La scena, agghiacciante nella sua burocrazia, in cui un arbitro sintetico nega a Hermit la libertà contrattuale, spiega meglio di mille monologhi come il diritto, delegato all’algoritmo, possa diventare violenza “pulita”. È qui che la serie incontra il nostro presente: quando la compliance cancella l’empatia, l’orrore non ha bisogno di denti.
Sul piano dell’iconografia, l’omaggio è colto: dal “Mother” analogico della Maginot alle superfici industriali “gigeriane”, dalle cabine lattiginose di criosonno agli inserti che citano 2001 e Blade Runner senza feticismo. La scelta di effetti prevalentemente pratici dà peso e viscosità a creature e ferite; i needle drop metal (Black Sabbath, Tool, Metallica) chiudono vari episodi con un’energia “heavy” coerente con l’epica nerissima del racconto. E quando la serie si ritrae in spazi limitati – laboratori, corridoi, cavedi – ritrova quella qualità da “camera a gas” dove Alien è nato: l’aria s’impoverisce, il suono dei condotti raddoppia la pulsazione cardiaca.
Se la misura di un’espansione d’universo è doppia – rispettare il mito, dire qualcosa di nuovo – Alien: Pianeta Terra supera l’esame. Rispetta cronologia e lore, introduce la Terra come bioma narrativo credibile (foreste-prede, città-ambizione), inventa una bestiario che non sfigura accanto allo Xenomorfo e, soprattutto, mette al centro una protagonista diversa da Ripley ma all’altezza del suo lascito: Wendy non batte il mostro con l’astuzia, lo relativizza chiedendosi se il confine tra uomo, macchina e bestia serva ancora.
In controluce, la serie risponde alla famosa intuizione della saga: gli alieni non si tradiscono per una percentuale; noi sì. E forse per questo meritiamo di perderla, la partita. O di vincerla cambiando specie.
Insomma, il verdetto è piuttosto netto: Alien: Pianeta Terra è scritta nella carne della franchise – una serie di Noah Hawley che reinventa gli Xenomorfi senza tradirli, con Wendy, Kirsh, Boy Kavalier e Morrow come nuove icone, le Cinque corporation come pantheon del male, la Maginot e la Neverland come luoghi-mito. È la serie che forse non ci meritiamo, ma di cui abbiamo bisogno: un Alien capace di usare la paura per parlare di noi, della memoria che ci definisce e dell’avidità che ci consuma.
Ha qualche inciampo di ritmo e di messa in scena del mostro, ma quando apre il suo sguardo – etico, estetico, politico – ci ricorda perché torniamo sempre qui: perché in questo universo la domanda non è “riusciremo a sopravvivere?”, ma “meritiamo di farlo?”. E poche opere recenti hanno avuto il coraggio di farcela davvero, questa domanda, con tanto sangue sul pavimento.
Di seguito trovate il full trailer doppiato in italiano di Alien: Pianeta Terra, a catalogo dal 13 agosto: