Voto: 6/10 Titolo originale: Die Alone , uscita: 27-09-2024. Regista: Lowell Dean.
Die Alone: la recensione dell’horror con gli zombi vegetali di Lowell Dean
25/10/2025 recensione film Die Alone di William Maga
Frank Grillo e Carrie-Ann Moss sono al centro di un film post-apocalittico intenso e malinconico che trasforma la lotta contro i non morti in una riflessione su memoria, amore e sopravvivenza

Die Alone è un raro film di zombi che, invece di puntare tutto su fughe e viscere, costruisce un enigma emotivo su memoria, colpa e sopravvivenza. L’idea del contagio vegetale – un’epidemia che trasforma i corpi in organismi ibridi, muschi e rami che ricrescono oltre la morte — non è un semplice vezzo scenografico: rilegge il mito dei non morti come ritorno della natura, risarcimento feroce contro un’umanità che ha consumato il mondo.
Su questa premessa Lowell Dean innesta un racconto “a incastro” in cui la perdita di memoria di Ethan è sia dispositivo narrativo sia condanna morale: come in un labirinto, ogni risveglio ricomincia da zero, ogni indizio si scompone, ogni legame va riconquistato. L’incipit con il proposito di farla finita, il salto all’indietro e la ricerca della fidanzata Emma fissano il doppio registro: da un lato il thriller apocalittico, dall’altro la storia d’amore che resiste anche quando la mente si spegne.
Nel confronto con lo zombi classico, i “Recuperati” ribaltano le regole: non c’è colpo alla testa che tenga, l’organismo torna a spuntare come una pianta infestante. È un’intuizione forte, sostenuta da effetti pratici che danno materia e peso ai corpi in decomposizione vegetale; e quando il film decide di mostrarli, l’impatto è notevole, con figure contorte, semi-coscienti, più tragiche che demoniache. Il limite è che questa iconografia, tanto potente, appare a ondate: la minaccia si ritrae per lasciare spazio ai dialoghi, e a tratti la tensione cala. Ma la scelta è coerente con l’obiettivo: usare l’orrore come contesto e non come padrone, mettere in primo piano le fratture interiori dei sopravvissuti.
Il cuore critico del film è nella relazione tra Ethan e Mae. Lei, solitaria guardiana di una fattoria in mezzo al nulla, lo accoglie con prudenza e poi con una cura che non cede alla retorica: Carrie-Anne Moss interpreta la donna con una presenza misurata, autorevole, ambigua quanto basta per farci dubitare delle sue intenzioni e, allo stesso tempo, per farci capire la sua sete di umanità. Douglas Smith dà al ragazzo un’ingenuità credibile, fatta di sguardi vuoti e tenacia, mentre Frank Grillo entra in scena come detonatore tardivo: quando appare, la trama accelera, i retroscena si riallineano, il destino dei personaggi si stringe. In mezzo scorrono figure minori – una madre barricata, un vagabondo aggressivo – che non diventano caricature: più che “il male”, sono la fatica di restare vivi.
La struttura frammentata gioca pulito: i salti temporali non sono virtuosismo, servono a farci provare la frustrazione di Ethan, il suo continuo riapprendere il mondo. Il prezzo è qualche stallo nel secondo atto e una gestione del mistero che rischia di compiacersi; tuttavia il disegno complessivo trova uno sfogo soddisfacente nel finale, dove l’opera si concede una nota “operistica” senza tradire la logica interna. Il colpo di scena, quando arriva, non è gratuito: riposiziona la storia come un racconto d’amore a combustione lenta, in cui la promessa fatta prima del crollo – ritrovarsi, proteggersi – resiste alle faglie della memoria e alle mutazioni della carne.
Sul piano tematico, Die Alone è più cupo di quanto sembri: afferma che a distruggere l’uomo non è solo l’epidemia, ma la speranza mal riposta. L’idea che “la speranza è il pericolo peggiore” – perché ti espone, ti rende permeabile all’infezione, ti illude che tutto possa tornare com’era – è il suo pensiero più amaro. La natura non punisce: ricompone. Gli esseri umani, invece, sono quelli che non sanno più dove mettere i confini tra sé e il resto. Da qui l’insistenza sul corpo come terreno conteso, e sulla memoria come argine fragile: se dimentichi chi ami, chi sei, a cosa ti aggrappi? Il film risponde scegliendo la fedeltà come atto di resistenza: anche quando la mente cancella, il gesto ritorna.
Fotografia e montaggio sposano questa impostazione. La luce ampia delle praterie canadesi contrasta con gli interni segnati dalla quotidianità della sopravvivenza – generatori, scorte, rituali; l’azione si concentra in incidenti improvvisi, con pochi spari, lame, corpi che crollano fuori campo, perché ciò che conta è l’attesa, il non detto, la paura di non ricordare. La messa in scena evita l’estetica videoludica dell’assalto permanente e preferisce l’inquietudine di una pausa troppo lunga, un’inquadratura su un chiodo, un rumore nel campo, uno sguardo di diffidenza. È un cinema dell’anticipazione più che dell’esplosione, e quando esplode lo fa con rigore.
Rispetto alla tradizione recente del post-apocalittico, Die Alone sta nel mezzo: non rivoluziona il genere, ma lo rinfresca con un dettaglio biologico intelligente e con una drammaturgia intima. Alcuni passaggi sono derivativi, e chi mastica molto il filone indovinerà presto un paio di traiettorie; tuttavia il film non cerca di sorprendere per compiacere: costruisce un puzzle emotivo che si chiude con coerenza. Se cercate solo assalti e inseguimenti, resterete a secco per tratti del cammino; se vi interessa capire come si sopravvive quando il tempo si spezza e la memoria ti tradisce, troverete una proposta compatta, ben recitata, visivamente curata.
In conclusione, Die Alone è un racconto di zombi che parla soprattutto di persone: di come ci si tiene stretti, di come ci si lascia andare, di come si resta fedeli quando tutto, dentro e fuori, spinge a dimenticare. È meno spaventoso di altri titoli, ma più toccante; meno rumoroso, ma più preciso; e quando finalmente il suo segreto si svela, lascia addosso quella malinconia che distingue l’orrore di maniera dal cinema che prova a dire qualcosa sul nostro modo di vivere – e di ricordare.
Di seguito trovate il trailer di Die Alone, su Prime Video dal 14 ottobre:
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