Voto: 8/10 Titolo originale: Le Samouraï , uscita: 25-10-1967. Regista: Jean-Pierre Melville.
Dossier: Le Samouraï, Alain Delon è l’archetipo dell’antieroe del polar d’autore
21/08/2024 recensione film Frank Costello, faccia d'angelo di Francesco Chello
Ricordiamo l’iconico attore francese recentemente scomparso attraverso uno dei film più famosi ed amati. Con Frank Costello, Faccia d’Angelo Jean-Pierre Melville realizza un film intenso, stiloso, ancora attuale. Uno dei titoli più influenti di sempre, la cui riuscita passa anche dall’interpretazione magnetica del suo protagonista
Cinematograficamente parlando, la notizia di questi giorni non può che essere la scomparsa di Alain Delon, venuto a mancare lo scorso 18 agosto ad 88 anni. Figura iconica del cinema europeo, aveva saputo fondere fascino, ambiguità, intensità emotiva, magnetismo. Sex symbol, ma non solo.
Dalle mie parti (ma credo un po’ dappertutto) si usava dire (e talvolta si usa ancora) ‘ma chi sei, Alain Delon?!’ diretto a chi ingiustificatamente si credeva più bello di quanto non fosse in realtà. Insomma, Delon era diventato il parametro del bello. Cosa che oggettivamente era.
Ma la bellezza nel cinema può essere un’arma a doppio taglio, se in alcuni casi può aiutare ad aprire delle porte in altre può diventare persino un limite. Per la serie sei bello ma non balli, per restare in ambito di detti popolari. Dubbi (su un limite soltanto eventuale) che il buon Alain aveva spazzato via fin da subito, dimostrando di essere soprattutto bravo oltre che bello, di avere del talento e non essere soltanto un good looking guy.
Di avere avuto il merito di piegare proprio quella sua bellezza ai suoi ruoli, ai suoi personaggi, alle sue interpretazioni, di aver reso il suo aspetto funzionale alla recitazione. Non è un caso se, pur avendo spaziato tra tanti generi, la presenza e la personalità di Alain Delon hanno trovato terreno fertile ed ambientazione ideale nel polar, nel noir, nel thriller, nel poliziesco.
Un merito nel merito, non solo aver fornito un apporto tangibile a quel cinema di genere che da queste parti tanto amiamo, ma aver contribuito ad elevarlo, in termini di qualità, di stile, di tensione emotiva, di considerazione da parte di critica e pubblico.
Nato a Sceaux l’8 novembre del 1935, Alain Fabien Maurice Marcel Delon è figlio di una commessa farmaceutica e di un proiezionista e poi direttore de La Règina, un piccolo cinema di quartiere, mestiere del papà che col senno di poi si direbbe una sorta di premonizione. Nel 1939 l’inizio di un’infanzia turbolenta: i genitori divorziano, il padre sparisce e la madre si vede costretta ad affidarlo ad una famiglia adottiva, nel 1943 finisce in collegio.
A 14 anni torna con la madre, lascia la scuola (espulso per intemperanze) ed inizia a lavorare nella salumeria del patrigno salvo cambiare idea a 17 anni quando si arruola nella marina francese da cui, qualche anno dopo, viene espulso dopo aver cumulato la bellezza di 11 mesi di reclusione per vari motivi disciplinari.
Per quanto il periodo sotto le armi si riveli altalenante e burrascoso, il giovane Alain resta affascinato dal senso dell’onore, della disciplina, dell’attaccamento alla patria, dalle armi da fuoco. In seguito si arrangia come commesso, cameriere e finanche come bohémien a Montmartre. La svolta arriva quando conosce l’attrice Brigitte Auber che, tra le altre cose, lo porta al festival di Cannes del 1957 dove viene inevitabilmente notato e stringe amicizia con Jean-Claude Brialy che lo introduce ulteriormente all’industria cinematografica.
Vive per un periodo a Roma quando accetta l’offerta del produttore David O. Selznick che gli propone un periodo di prova, studia l’inglese (tornando in patria) in vista di un possibile contratto a stelle e strisce della durata di sette anni che però viene messo in secondo piano grazie all’incontro con Yves Allégret che gli chiede di lavorare per lui facendolo esordire in Godot (Quand la Femme s’en Mêle del 1957).
E’ l’inizio di una brillante carriera, lavora sia al cinema che in tv, in patria e all’estero (Italia inclusa), colleziona successi di critica e commerciali, qualche premio (tra cui un Golden Globe, un David speciale, un César, un Orso d’Oro alla carriera, una Palma d’Oro onoraria) ed alcuni riconoscimenti governativi, un paio di esperienze da regista/sceneggiatore – Pour la Peau d’un Flic (Per la Pelle di un Poliziotto, 1981) e Le Battant (Braccato, 1983).
Mi limiterò ad un giro panoramico senza tediarvi in elenchi di film facilmente consultabili anche sul web, ad esempio ricordando che ha lavorato per registi come Jean-Pierre Melville, Jean-Luc Godard, Luchino Visconti, Michelangelo Antonioni, Louis Malle, Michael Winner, Jean Herman, Duccio Tessari, Henri Verneuil, Terence Young, e non mi metto a snocciolare colleghi di pregio con cui ha condiviso la scena altrimenti non la finiamo più – vabbè, per campanilismo mi concedo Charles Bronson (uno dei miei miti) con cui gira due film tra il 1969 ed il 1971.
Qualcuno poi qui ci infilerebbe la lista di storie d’amore e flirt, ma il gossip non è esattamente nelle nostre corde così come lo scavare nel privato degli artisti – beh, a meno di casi eclatanti tipo Victor Salva in cui mi viene difficile restare neutrale e scindere le due cose – che in realtà la mia è una scusa per muovere una critica nei confronti di quelli che si sono messi a denigrare Delon nel giorno della sua morte per le idee politiche o le scelte familiari.
Però un accenno alla ormai famosa foto con Marianne Faithfull e Mick Jagger lo voglio fare, perché ammetto che mi fa morire per il modo in cui sottolinea l’aura seducente di Alain in un solo scatto. Divagazioni a parte, torno in topic piazzandoci una serie di titoli random come Rocco e i suoi Fratelli (1960), Il Gattopardo (1963), Adieu l’Ami (Due Sporche Carogne, 1969), Les Clan des Siciliens (Il Clan dei Siciliani, 1969).
E poi La Piscine (La Piscina, 1969), Borsalino (1970), Le Cercle Rouge (I Senza Nome, 1970), Soleil Rouge (Sole Rosso, 1971), Un Flic (Notte sulla Città, 1972), Tony Arzenta (1973), Scorpio (1973), Le Seins de Glace (Esecutore oltre la Legge, 1974), Le Gitan (Lo Zingaro, 1975), Zorro (1975), giusto per rendere l’idea della sua carriera (e, nello specifico, del suo prime).
Ed è proprio nella sua filmografia che voglio pescare un titolo che possa veicolare un omaggio ad Alain Delon. Ho scelto Le Samouraï del 1967, uno dei suoi film (e dei suoi ruoli) più famosi è più amati. Il polar in uno dei suoi punti più alti. La prima di tre proficue collaborazioni col già menzionato Jean-Pierre Melville che oltre alla regia firma anche la sceneggiatura (insieme a Georges Pellegrin) partendo dal romanzo The Ronin di Goan McLeod.
Un racconto soltanto vagamente ispirato alla figura del gangster americano Frank Costello, non per niente la tiepidezza del riferimento si può riscontrare nel fatto che Melville decida di cambiargli anche il nome di battesimo in Jef, peccato che i soliti distributori italiani si sentano più furbi distribuendo il film come Frank Costello, Faccia d’Angelo arrivando, quindi, a cambiare il nome in Frank in fase di doppiaggio. Motivo per cui mi concederete di utilizzare maggiormente il titolo originale, che dire che lo preferisco è dire poco.
Le Samouraï è uno di quei film di importanza fattuale. Considerato uno dei titoli più influenti della storia. Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Quentin Tarantino, Jim Jarmusch, John Woo, Johnnie To, David Fincher, Bernardo Bertolucci, Joel ed Ethan Coen, Aki Kaurismaki, Takeshi Kitano, Georges Lautner, Nicolas Winding Refn, Luc Besson sono solo alcuni dei registi che hanno realizzato opere ispirate a quella di Melville.
E prima ancora di Delon, è proprio dal filmmaker francese che bisogna partire per tessere le lodi del film in questione. Per la creazione del suo polar Melville parte dal noir americano, ne prende gli stilemi e li plasma alla narrativa criminale transalpina, attraverso ispirazioni, inclinazioni ed emotività evidentemente personali.
Ne viene fuori una messa in scena che riesce ad essere contemporaneamente raffinata e dotata di cifra stilistica ma anche asciutta, minimalista, essenziale. Una direzione curata, caratterizzata da movimenti pregni di carattere ma non per questo invasivi nei confronti di una vicenda che resta il focus della sua narrativa.
Il mood viene settato immediatamente da una didascalia d’apertura che recita “Il n’y a pas de plus profonde solitude que celle du samouraï. Seule peut lui être comparée celle du tigre dans la jungle… peut-être” (“Non c’è solitudine più profonda di quella del samurai, se non quella di una tigre nella giungla… forse…”), citazione attribuita al libro del bushido ma in realtà inventata dallo stesso Melville (farà lo stesso ne I Senza Nome con una massima fittizia accreditata a Buddha).
La scrittura gioca sulla costruzione, sull’attesa, sulla guerra di nervi, sulle mosse che sembrano quelle di una partita a scacchi, sul disagio emotivo, sui ritmi volutamente dilatati e tempi scanditi dalle didascalie, elementi di un meccanismo tensivo che tiene costantemente la situazione (e lo spettatore) sulle spine.
Penso all’interrogatorio, ai pedinamenti quasi interminabili. I dialoghi centellinati, basti pensare ad un prologo in cui per almeno dieci minuti non viene pronunciata nessuna battuta. Il sottofondo è quello di un aspro ritratto della solitudine, per certi versi anche metaforica, quella del sicario schivo e solitario che diventa specchio dello stesso Melville, del suo carattere diffidente ed introverso che lo poneva in posizione defilata rispetto al centro del mondo cinematografico made in France.
Ed è sempre a Jean-Pierre Melville che bisogna riconoscere il merito di aver collocato un asso come Alain Delon al centro del suo progetto, di averlo messo in condizioni di rendere al meglio, di avergli affidato un personaggio scritto con sensibilità e profondità come quello di Jef Costello.
L’autore francese aveva buttato giù la sceneggiatura pensando espressamente a Delon per il ruolo principale. Quando si presentò a casa dell’attore per parlarne e proporgli la parte, Alain chiese quale fosse il titolo. Una volta appreso che era Le Samouraï chiese a Melville di seguirlo in una camera in cui c’era solo un divano in pelle ed una spada da samurai appesa al muro. Era un segno del destino.
Dal canto suo, Delon ripaga stima e fiducia con un’interpretazione di assoluto spessore, che vale l’altra metà della riuscita di un film che gli italiani continuano a chiamare Frank Costello, Faccia d’Angelo. Consegnando agli annali l’archetipo dell’antieroe del polar d’autore.
L’interprete allora 32enne si muove con la sicurezza dei grandi. Pronuncia poche battute ma ben assestate – ricordatevi il suo “io non perdo mai, non è mai successo” che a breve ci servirà per una chiave di lettura. Il resto (tantissimo) lo fa con la presenza, la personalità, il magnetismo, il gestuale, il linguaggio del corpo, l’espressività del volto.
Un’interpretazione che in apparenza gioca di sottrazione per poi rivelarsi particolarmente intensa, in cui ogni piccolo movimento o dettaglio è calibrato per consegnare una sua forza espressiva. Dal semplice indossare un cappello, sistemarsi il collo di un indumento, schioccare le dita, gli sguardi (con i suoi occhi di ghiaccio) lanciati come staffilate.
La seduzione su donne affascinate in modi differenti – tra cui una bella Nathalie Delon (pseudonimo di Francine Canovas) all’esordio. Guida sul serio la Citroën DS in un vicolo stretto a dispetto di un Melville preoccupato che non ne fosse capace. Un personaggio algido, schivo, silenzioso, nasconde una complessità (ed un malessere) interiore, apparentemente privo di emozioni che invece trapelano in determinate circostanze, dalla rabbia di una pistola puntata contro all’ansia della fuga nel terzo atto.
Il cui unico vero amico è probabilmente quell’uccellino con cui condivide la solitudine di una gabbia imposta da altri – e che purtroppo morirà lo stesso anno nell’incendio che distrusse lo studio del regista. Per arrivare ad un finale altamente significativo, chiaramente malinconico in quella che sembra una sconfitta ma che in realtà, ad un osservatore attento, non risulterà come tale.
Ed è qui che torna quella frase che vi suggerivo di ricordare poco fa, Costello non perde mai, ed è fin troppo esplicito che presentarsi ad una resa dei conti con una pistola scarica voglia dire soltanto una cosa. Porre fine a quell’insofferenza di una vita che forse non vuole più essere vissuta. Un percorso inquieto che non può che finire in una tragedia voluta. Un modo per vincere anche nella morte.
Le Samouraï (o se volete farmi dispetto preferendo Frank Costello, Faccia d’Angelo) è un film intenso, stiloso, influente, ancora attuale. Bello, semplicemente. Che fa parte di un’eredità cinematografica che solo i grandi sanno lasciare. Ed Alain Delon apparteneva a quella categoria.
Di seguito trovate il trailer internazionale di Le Samouraï / Frank Costello, Faccia d’Angelo:
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